Il corteo di ieri si è
discostato visibilmente, nel linguaggio e nelle forme della
partecipazione, dai soliti cortei. Uno sciame di persone, non
attraversato da principi d'ordine, soprattutto gioioso. Le tematiche
esplicite, quelle rintracciabili nei volantini e negli striscioni,
sono circolate senza uno specifico portatore, né individuale né
collettivo. Certo i “rottamai” c'erano, c'erano i giovani
precari, c'erano le famiglie, “occupanti e non”, ma nessuno di
loro appariva con il targhet della categoria sociale di appartenenza.

Due volantini, fitti di
argomenti, sono stati distribuiti in una sorta di occasionale
passamano, come se quella fin troppo tradizionale forma di
comunicazione costituisse un dettaglio trascurabile rispetto alla
comunicazione dei sentimenti, delle colonne sonore dei sound-system,
delle danze e delle performance dei gruppi in costume. Una bella
manifestazione, hanno detto in molti, durante e dopo il corteo. Una
bella festa. In molti si sono rammaricati di non avervi preso parte.
Una situazione
decisamente sfavorevole per chi sopravvaluta il potere della parola,
per chi legge il presente con le lenti del passato. La rivendicazione
del diritto al lavoro e alla casa è stata brevemente commentata, in
due punti del lungo percorso, come se fosse serenamente implicita e
scontata, come se la fiducia e la speranza in un mondo migliore non
avessero bisogno di dichiarazioni di uguaglianza e di giustizia
sociale, ma solo di azioni e sentimenti conseguenti. Rigorosamente
conseguenti, come una occupazione, come una festa in una casa
occupata o come un esproprio. Si esproprio, come quello deciso dal
governo della Andalusia, nei confronti delle banche che hanno
speculato con i mutui ipotecari.