La famiglia di cui si è
discusso, ieri sera, nell’assemblea degli occupanti e delle
famiglie sotto sfratto ci era già nota. Lui, Choundi Said, opeaio
edile, con una normale storia di lavoro fino al 2012, poi una
disoccupazione che non ha avuto termine, una figlia minore di 4 anni,
una moglie incinta.
Quando abbiamo
contrastato lo sfratto, al quarto accesso – i precedenti ottenuti
con il contributo economico del Comune – il capofamiglia aveva già
percorso tutta la strada delle incertezze e delle vane attese di chi,
trovandosi improvvisamente privato di un reddito da lavoro, si
rivolge ai vari sportelli della filantropia pubblica e privata. I
funzionari e i loro dirigenti del Centro per l’impiego, dei Servizi
Sociali e della Caritas presumono di poter offrire qualcosa di più
di un atto filantropico o compassionevole. E’ vero, ma quel
qualcosa di più sono solo annunci di politiche sociali e della casa
che non vengono mai attuate, di cui non si vede alcun presupposto.
Diversamente, non si arriverebbe a proporre ad una famiglia come
quella del signor Choundi Said, vittima di una crisi di cui non
condivide alcuna responsabilità, la sua dissoluzione. Mittente della
proposta l’assessorato alle politiche sociali “viaggio
accompagnato al paese d’origine per tutta la famiglia oppure centro
di accoglienza per la figlia minore” . Il tutto regolarmente
annotato dall’ufficiale giudiziario esecutore dello sfratto.
Ma gli atti
compassionevoli, se non sono propedeutici ad una buona politica,
concorrono a seminare nel corpo sociale, clientelismo, opportunismo e
de-responsabilizzazione. In questa particolare congiuntura, nella
veste del dialogo di chi li propone, funzionano come dispositivi di
assoggettamento agli interessi della possidenza e alle politiche
dell’austerità. L’Italia è un Paese ricco abitato da poveri. La
ricchezza privata assomma a 4 volte il debito pubblico ma la metà è
appannaggio del 10 % della popolazione, il 90 % si divide quel che
resta. Le grandi opere inutili e infiltrate dalla mafia, le spese
militari, il denaro pubblico alle banche per salvarle da
irresponsabili operazioni finanziarie, la privatizzazione dei beni
pubblici, avendo come corrispettivo l’abbattimento dei diritti
costituzionali e delle politiche del welfare ispirate da quei
diritti, sono tutti provvedimenti che alimentano e confermano questa
enorme disuguaglianza.
Ma la famiglia di cui
si è discusso, ieri sera, nell’assemblea degli occupanti e delle
famiglie sotto sfratto, ha avuto in sorte, come padrona di casa, una
pensionata inps. Una signora che arrotondava la sua modesta pensione
con la rendita di un secondo alloggio, quello affittato al signor
Choundi Said . Appare evidente a chiunque che, in questo caso,
inquilino e proprietario sono entrambi dalla parte del problema. Che
fare dunque per garantire il diritto all’abitare dell’inquilino e
la libertà di affittare della signora ?
E’ necessario innanzi
tutto prendere atto che che esiste una forma di proprietà
immobiliare, frutto di attività altamente speculative e dissipative
di territorio, di cui è stato protagonista il “partito del
mattone”, vale a dire il blocco di interessi privati rappresentato
da banche, costruttori, proprietari di aree, corporazioni
professionali e assessorati all’urbanistica compiacenti. E’ la
forma di proprietà che si è materializzata in migliaia di alloggi
sfitti o invenduti e in decine di edifici vuoti in attesa di
“valorizzazione mercantile”.
Questa proprietà, che
riduce a puro valore di scambio i suoi beni, li priva di valore d’uso
e quindi di utilità sociale, può definirsi a ragion veduta
“proprietà assenteista”. Diversamente dalla piccola proprietà
immobiliare, quando è di sostegno ad un reddito modesto. La
“proprietà assenteista” non è ammessa dalla nostra Costituzione
(leggersi gli articoli 41, 42, 43) e dunque può essere assoggettata
a provvedimenti amministrativi fuori dall’ordinario.
Carlo Sottile e Luca Squillia, movimento per il diritto all’abitare di Asti
Asti 6/11/2013
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