Frequento il bar di via Monti dal 95, ultimamente con qualche esitazione, perché ogni volta che varco quella soglia mi si apre un tunnel temporale su una realtà sociale assai diversa dalla presente. I rapporti che prima avevo intensissimi, nella sede del Coordinamento con gruppi di assegnatari o aspiranti assegnatari o, in tempi più recenti, era il 2008, nelle sedi della “programmazione partecipata” del Piano di Recupero Urbano (Centro sociale, Circoscrizione, scuola Gramsci), si sono ridotti al “ciao pascià”, o qualche altro nomignolo identificativo di una antica consuetudine, indirizzato a qualcuno spaparanzato ad un tavolino, seguito dal classico “chi non muore si rivede”.
Ciò che è sparito nel quartiere, non certo per mano divina, sono le forme di soggettività vissute in fabbrica e nel sindacato, scandite dai momenti dell’assemblea e del conflitto. Negli anni 90 ancora vi perduravano sebbene estenuate, più memoria di una generazione che già andava popolando la categoria dei pensionati, che motore della economia reale. Insomma, nel quartiere c’erano ancora brandelli di “autogestione”; c’era ancora un “noi” che escludeva derive piccolo borghesi, come le stigmatizzavamo allora, che conducevano “ognuno raccolto nel suo povero piccolo io”, ad una solitudine, somma di sentimenti negativi.
Adesso, nel 2021, le comunità sopravvissute sono quelle dalla parrocchia, del bar, del gruppo sportivo o religioso; fuori di lì i più si raccolgono in una moltitudine di io “competitivi e narcisisti” (Zigmunt Bauman, sociologo). Ognuno con una diminuita consapevolezza di sé, cittadino trasformato in consumatore e assoggettato al mercato con procedure da lui stesso attivate (tutti hanno uno smartphone in tasca). Questo mutar di profili sociali può considerarsi, molto a posteriori, uno degli esiti della controrivoluzione neo-liberale, che ha preso l’avvio con la rottura degli accordi di Bretton Woods, nel 71, quando il governo degli SU ha tolto al dollaro il sottostante aureo e ha posto le basi della finanziarizzazione dell’economia.
Una controrivoluzione, è stato giustamente detto, il capitalismo alla sua ennesima metamorfosi (Paolo Virno, “Do you remember counterrevolution”), ovvero una sistematica reazione dei poteri dominanti al ciclo di lotte degli anni 70, che ha macinato con metodo l’intera società. Prima accompagnata ed assecondata dai vari riformismi, successivamente sfociata in una crisi, quella presente, che minaccia di essere irreversibile. E’ lo stesso capitalismo del far soldi con i soldi, per incapacità di farli nell’economia reale e per ciò stesso predatorio, incurante degli ecosistemi, generatore di estreme disuguaglianze. Ora, dire che attorno alla consapevolezza dell’io si decidono le sorti del pianeta è una semplificazione, ma il salto di era geologica (l’antropocene) che la crisi annuncia, come esito delle attività umane, dovrebbe costringere tutti, persone singole e in vario modo associate nonché agenti a vario titolo delle istituzioni, a vedere le cose da un nuovo, non scontato, punto di vista e ad agire di conseguenza.
Tale riposizionamento lo ha già fatto una parte ancora minoritaria di cittadini “liberi e pensanti”, associandolo a coerenti pratiche sociali e assumendosi con ciò un ruolo di “cittadinanza attiva”. Detto al governo Draghi, con le parole del collettivo di fabbrica della Gkn: “se volete scrivere una legge anti-localizzazione, la scrivete con le nostre teste”, ovvero siamo cittadini, non vogliamo essere destinatari di azioni altrui. L’imperativo, che nel caso della Gkn ha accompagnato una campagna di mobilitazione, tuttora in corso, in difesa di più di 400 posti di lavoro cancellati con una e-mail dalla multinazionale/proprietaria, ha un valore erga omnes e si leva ovunque si accende un conflitto in difesa di diritti e di dignitose condizioni di vita, perché coglie e stigmatizza un riposizionamento che dalla parte delle istituzioni non è avvenuto o avviene timidamente, mostrando un modo di governare estraneo alle regole della democrazia liberale e apertamente ostile alle regole della democrazia diretta o partecipata. Questa governance, caratterizzata da procedure di controllo e disciplinamento, è anch’essa un esito del capitalismo alla sua ennesima metamorfosi.
E questa governance che si riconferma privando di ogni momento partecipativo i progetti finanziati attraverso il bando che ha per titolo “Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare” (PinQua). La giunta di governo di Asti se n’è attribuiti due, che saranno realizzati in Praia e Zona Enofila, quartieri dove è significativo l’insediamento di Edilizia Residenziale Pubblica, ma dove è altrettanto significativo il mutare dei profili sociali di cui si è detto.
La missione di tali progetti, “ridurre il disagio abitativo e favorire l’inclusione sociale”, mette insieme diritto alla città e diritto all’abitare. Due diritti complementari il cui esercizio era stato sottratto alla retorica, su tutto il territorio nazionale, dai “movimenti di lotta per il diritto alla casa”; ad Asti dal collettivo delle famiglie sfrattate e sotto sfratto e dai militanti del Coordinamento (era il 2010). Successivamente cancellato con processi, provvedimenti di ordine pubblico e ostilità delle amministrazioni di ogni colore politico (era il 2014), con uno sviluppo delle cose da iscriversi alla controrivoluzione di cui si è detto. La legge Lupi/Renzi 80/2014, ha accompagnato rafforzandolo quello sviluppo. E’ la legge di cui nessuno parla, che ha messo fine alla Edilizia Residenziale Pubblica, ha criminalizzato la povertà negando l’allacciamento alle utenze e i diritti di cittadinanza alle famiglie “occupanti”, ha lanciato il social housing, l’abitare per il ceto medio impoverito dalla crisi. Guarda caso, il social housing, sostitutivo della casa popolare, è l’azione più rilevante del progetto Praia del PinQua.
I progetti del PinQua, per una spesa di 26,6 milioni di euro, non saranno realizzati per ricomporre l’esercizio del diritto alla città e del diritto alla casa, ma per imbellettare una insostenibile qualità dell’abitare e un modo di vivere la città fortemente condizionato dai flussi dell’economia neoliberale. Nel bando che ha lanciato e finanziato i progetti (Decreto Interministeriale n. 395 del 16.09.20), si fa riferimento al “modello urbano della città intelligente, inclusiva e sostenibile (Smart City)”. L’acronimo Smart si traduce con “una persona vestita alla moda, energica e veloce, con una intelligenza non comune”. Un orientamento di una progettualità calata dall’alto, già sperimentata in modo fallimentare nel Quartiere Risorgimento a Torino; già corposa materia di un dibattito che, nel decennio precedente la pandemia, ha coinvolto noti archistar (Boeri, Fuksas, Ratti), offrendo all’attenzione (paradossi della storia), tra i progetti realizzati sul pianeta, quello di Dubai (Emirati Arabi).
Possiamo presumere pertanto che una serie di azioni dei progetti, annunciate sulla carta per partecipare al bando, siano destinate a dissolversi come fantasmi oppure a produrre effetti irrilevanti o non attesi. Nel progetto Praia condividono questa irrealtà la “filiera corta” di prodotti biologici, con orto urbano e mercatino, gestita da pensionati trasformati in coltivatori, la telemedicina, persino un pizzico di fotovoltaico. C’è invece, a profitto di banche e cooperative di costruttori e della filiera della grande distribuzione, la riapertura del cantiere di via Ungaretti, per 36 alloggi di edilizia convenzionata (l’abitare per il ceto medio impoverito) con spazi commerciali ed espositivi. Il cantiere originario, fermato da un fallimento, prevedeva 36 alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica. Ne saranno costruiti solo 14. Evidentemente c’è l’intenzione di decimare, nel senso proprio del termine, i 615 aspiranti assegnatari della graduatoria Atc, prima con requisiti d’accesso al bando che nulla hanno a che fare con il bisogno abitativo dei richiedenti e poi, superato il bando, con una punitiva gestione delle morosità.
In quanto al progetto della Zona enofila, il “disagio abitativo” per chi vi abita è di dover vivere come una condanna tutte le condizioni del ghetto (come nella “Cashba” di via Malta). Recentemente un assegnatario di non giovane età e di redditi modestissimi, già assistito dai servizi psichiatrici, è morto in casa e il suo cadavere, per una settimana, è stato amorevolmente assistito dalla consorte, poi ospitata nella Casa di Riposo città di Asti, quella pubblica e in perenne dismissione e che nessuno vuole più frequentare. Vicenda da manuale che mostra come qualunque riqualificazione energetica degli edifici, non cancellerà i confini della povertà, della esclusione sociale, delle varie fragilità che lì vengono confinate. Dal novecentesco welfare della fabbrica storica a ghetto. Un ghetto tutt’altro che liberato dalle ipotesi di ampliare/integrare gli spazi e le attività del Cpia, confermato invece dalla ipotesi di aprire lì un dormitorio “maschile”. La trasformazione che è avvenuta in quella zona, non essendo frutto della mano di dio o di qualche altro agente metafisico, è da leggersi come l’esito di lungo corso di politiche neo-liberiste, tutte in vario modo confermate dalle amministrazioni cittadine che si sono susseguite, dagli anni 90 fino alla presente, aperta ai flussi della economia neo-liberale, che de-territorializzano la città (vedi C. Alessandria, Zona Mercato Coperto) e alle pratiche di potere della biopolitica. Ciò che non fanno i big-data, attraverso la diffusione di massa dei loro terminali, lo fanno la filantropia pubblica e privata nonché le “azioni di riduzione del danno” dell’assessorato alle politiche sociali.
Rilevo di passata che i “critici” della presente amministrazione, la minoranza nella “rappresentanza” in Consiglio Comunale, preferiscono sorvolare sulle radicali trasformazioni e limitazioni che hanno subito le funzioni cittadine e il relativo hardware urbano come se non da esse, derivasse il consenso di Rasero e i suoi assessori; quasi che la competizione elettorale che si annuncia dipendesse esclusivamente dalla personalità e dalla capacità amministrativa degli antagonisti piuttosto che dalla “forza” dei processi sociali e politici in corso.
Carlo Sottile
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