Coinvolti dagli
organizzatori di Asti Fest (Festival dell'Architettura Astigiano)
nella discussione sul recupero degli edifici dismessi abbiamo di buon
grado aperto gli spazi da noi autogestiti in via Orfanotrofio (ex
mutua) ad un gruppo di filmakers, corrispondendo a tutte le loro
domande e curiosità. Ne è risultato un incontro piacevolissimo con
dei bravi professionisti nonché il montaggio di un pezzo di una
video/intervista a più interlocutori, architetti, giornalisti,
tecnici del Comune, “occupanti”.
Assecondando
l'intenzione degli organizzatori di ottenere un evento il più
possibile partecipato, non abbiamo fatto mancare la nostra presenza
alla assemblea/dibattito di mercoledì 11 presso Palazzo Gazzelli,
dove la video/intervista è stata proiettata. Dunque il nostro
commento è in un certo senso dovuto. Lo esprimiamo però con qualche
esitazione. Non solo perché siamo estranei alla disciplina (non ci
sono architetti tra noi) ma soprattutto perché gli stessi architetti
sono intervenuti con una scelta dei temi piuttosto lontana, anche nel
linguaggio, da quella suggerita dalla video/intervista (il recupero
degli edifici dismessi dall'Asl). Forse, prima di discutere di
recupero in generale, mostrandone splendidi esempi, come è stato
fatto, bisognerebbe discutere se è possibile e come il recupero di
quel particolare edificio o area urbana, in quel particolare tempo
storico.
In questo senso,
costretti ad apprendere in corpore vivo i vari aspetti della
funzione dell'abitare, non abbiamo apprezzato l'ostinazione,
mostrata soprattutto da ex assessori e stimati consulenti degli
stessi, con cui si è tenuta lontana dal dibattito la storia recente
dell'urbanistica astigiana e i suoi più che discutibili esiti
sociali e ambientali. Dalle decine di edifici dismessi, in “attesa
di valorizzazione”, alle migliaia di alloggi sfitti o invenduti,
dalla residualità dell'edilizia residenziale pubblica ad un
debordante bisogno abitativo insoddisfatto.
Vi ha fatto cenno un
noto giornalista, tirando in ballo la morale pubblica del tempo,
quando invece sarebbe stato necessario, più brutalmente, tirare in
ballo il “partito del mattone”, di cui la corporazione degli
architetti fa indubitabilmente parte. Scambiare ostinatamente oneri
concessori con diritti edificatori, come è stato fatto in questi
ultimi vent'anni, sacrificando l'interesse pubblico alla rendita, ha
reso meno limpido anche il lavoro degli architetti. Certo li ha
allontanati dalla cultura di straordinari professionisti, che hanno
messo la loro città ideale, la loro idea di bene pubblico, alla
prova dei conflitti sociali del loro tempo. Tanto per fare un nome,
adesso più celebrato che seguito, Giovanni Astengo, l'assessore
regionale del Piemonte che promosse e fece approvare, nel dicembre
del 77 , la legge regionale a “Tutela ed uso del suolo".
Sappiamo benissimo che
in questo modo rischiamo di buttarla in politica, sacrificando ciò
che di non conforme hanno fatto e stanno facendo molti architetti, ma
aspettando temerariamente che il mercato immobiliare si rimetta in
moto, che è la posizione di molti degli “addetti ai lavori”, non
si recupererà un bel nulla e l'urbanistica finirà con il
confondersi con la presente, fin troppo ordinaria, amministrazione
del suolo urbano. Oppure si recupererà poco e a favore dei ricchi,
potendosi offrire solo alberghi a 5 stelle o dimore di lusso.
Ci vuole lo spirito di
un nuovo inizio e noi, lo diciamo senza iattanza, crediamo di essere
spinti da quello. Le nostre azioni in difesa dei diritti, in primo
luogo quello all'abitare, e la coerenza che cerchiamo tra le nostre
azioni e le promesse e i principi della Costituzione, sono una
critica radicale al diritto di proprietà così come si è venuto
configurando e sovra-strutturando (le oligarchie che governano
l'Europa) in questi decenni di neoliberismo.
In questo senso le
nostre azioni non sono atti illegali ma atti a vocazione costituente.
Non ha invece alcuna vocazione costituente la proprietà assenteista,
quella che si accredita “senza se e senza ma”, priva di
qualunque funzione sociale, che prende forma negli edifici dismessi e
negli alloggi vuoti di cui si parla, esposti alle ingiurie del tempo
e degli uomini e alle alchimie criminali del sistema finanziario.
Bisogna prenderne atto,
tirare giù dal tabernacolo il diritto di proprietà e provare a
declinarlo in relazione alla funzione sociale che garantisce (Art.41
e 42 della Costituzione). Esattamente come si è fatto con il
referendum sull'acqua pubblica. Come si dovrebbe fare con tutti i
beni necessari ad assicurare i diritti della persona (Art.3 della
Costituzione), configurandoli come “beni comuni”, dunque
inalienabili, ne pubblici ne privati, ma in uso alla comunità dei
cittadini (vedi La Costituente itinerante dei “beni comuni”, il
laboratorio di cui è animatore Rodotà).
Oggi le città, se non
sono ribelli, sono un cumulo di rovine o un costrutto senza senso.
Carlo, Samuele,
Michele, Tina e fratello, Ale, volontari e “occupanti” del
Coordinamento Asti-Est.
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