sabato 26 dicembre 2009


IL PALAZZONE ATC DI VIA MALTA E LA MATERNITA'
La mia amica Valeria afferma che il palazzone senza balconi all'esterno, con l'ingresso al cortile in via Malta, “è come la casbah”. Il paragone calza solo in parte ma è confermato dalle definizioni che i dizionari danno di quella conformazione urbanistica araba. Quartieri interni alla città, fortificati e abitati dalla parte più povera della popolazione.
Quel palazzone è accartocciato su se stesso proprio come una fortificazione. Sono centoventi alloggi, uno sull'altro, che si affacciano su un cortile interno affollato di auto e di cassonetti dell'immondizia. Non c'è una traccia di verde, solo un battuto di cemento sconnesso che converge sulle grate in ferro dei pozzetti dell'acqua piovana. Per raggiungere i tre gradini in pietra di uno degli ingressi alle scale bisogna passare di lì, misurando bene ai passi, tra un ostacolo e l'altro.
Visti dall'alto dei balconi interni, quegli ingressi sembrano i passaggi ad una piazza. Nella bella stagione e nei pomeriggi sono in ombra mentre il resto del cortile è illuminato e arroventato dal sole. Seduti sui gradini o in piccoli capannelli, è li che si danno appuntamento donne e bambini, sfaccendati, fumatori e naufraghi della vita.
E' pur sempre vita, anche se manca il colore, la vivacità e la leggerezza dei visitatori occasionali o degli abituali espositori di mercanzie che fanno della casbah una meta. In quel palazzone/fortezza invece non ci va nessuno, salvo i parenti degli inquilini, i funzionari dell'atc e del Comune e le famiglie che non possono sottrarsi in altro modo alla minaccia di finire in strada. Tutti se ne vogliono andare alla prima occasione, i cambi alloggio con inquilini atc che stanno altrove sono rarissimi, chi ha acquistato subaffitta.
Qualche volta qualcuno da di testa oppure sfoga con il vicino più prossimo il proprio malessere. Allora arriva la polizia, ma è tutto come in un laboratorio in cui si misura il grado di resistenza umana in un ambiente ostile; è tutto prevedibile e scontato.
Di notte, su quel battuto di cemento, i ratti tracciano la mappa dei loro insani desideri, mettono alla prova le loro strategie alimentari. L'odore dei rifiuti, che è intensissimo, li anima in rapide, circospette e speranzose incursioni, dai pozzetti ai cassonetti e ritorno. Le subitanee attese in cui si irrigidiscono al minimo rumore, annullano gli spazi e dilatano i tempi, proprio come in un incubo.
Gli stessi pozzetti sono popolati dall'esercito di blatte che nelle ore piccole prende d'assalto le condotte dell'acqua e degli scarichi. Una salita che si ripete ogni notte e rende ancora più inquieta l'insonnia e amaro il risveglio degli abitanti. Una inarrestabile marea, un brusio vero o immaginato, scarafaggi in neri mantelli che si muovono invisibili. Oppure si arrestano, immobili estenuati ed esposti a tutte le offese, appena un pallore di luce, di sole o di abatjour, li rende visibili. Uno scenario surreale, che non concede nessuna tenerezza, solo schifo e ripulsa.
Gli errori e i lati oscuri della vita di ognuno possono trovare in questo luogo un perfezionamento. Storie di condanne mai pronunciate che però si adempiono per la forza delle circostanze. Il normale malessere sociale, costretto tra queste mura, tradisce i migliori sentimenti, la voglia e la necessità di cambiare solo qualche volta ispirano azioni liberatorie, più facilmente mutano in rancore sordo verso il vicino che sta peggio.
I segni della vetustà e dell'incuria balzano subito all'occhio, molto più dei tentativi di porvi rimedio che pure ci sono, qualche scala è pulita, qualche intonaco rifatto, non tutti i balconi sono ripostigli, qua e là si vede qualche vaso di fiori. Ma l'impressione generale è sgradevole, l'odore è di segregazione. Il pavimento del cortile è sconnesso e durante i temporali di pioggia si riempie di pozzanghere, le pareti di molte scale hanno il colore dell'intonaco che sfarina e la graniglia dei pianerottoli è impastata di sporcizia. Le cantine, senza averle viste, si immaginano umide, usate come discariche oppure come magazzini di oggetti destinati ad essere dimenticati o di merci da sottrarre a pubblici inventari.
La proprietà dello stabile è divisa tra l'atc e un certo numero di inquilini che hanno acquistato l'alloggio. La circostanza non favorisce l'affermarsi di un principio d'ordine, meno che mai estetico, rende complicata e spesso paralizza qualsiasi seria attività di amministrazione. E' un altro frutto velenoso, anzi velenosissimo, delle privatizzazioni, perché ha reso ancora più rancorose e non collaborative le relazioni tra inquilini.
Tra questi ultimi ci sono indubbiamente quelli che si lasciano andare al peggio e non si sottraggono al fascino oscuro del luogo, però, con la rinuncia alla proprietà pubblica dell'intero stabile, è venuta meno un'altra (oltre quella strutturale) delle condizioni necessarie per fare esperienze positive di vita in comune. In questo luogo, così fatto, le riunioni, le assemblee e le feste, sono azioni difficilmente agibili e i legami sociali tra inquilini e famiglie sono continuamente a rischio.
In questi giorni architetti e cittadini che hanno a cuore la loro città hanno preso la parola contro l'abbattimento dell'edificio della Maternità. Hanno detto che quell'edificio è il luogo di memorie e storie ampiamente condivise, la testimonianza di un progresso sociale a cui hanno concorso in molti, tutti con una idea di bene pubblico, con uno slancio di morale civica.
Bene, con le stesse intenzioni, e con le stesse visioni dei protagonisti di allora, si potrebbe discutere oggi dell'abbattimento del palazzone/fortezza di via Malta; un luogo che, a differenza della Maternità storica, distrugge la coscienza di sé dei singoli e il senso di una dignitosa vita civile.

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