lunedì 9 maggio 2011

PROCESSO ALLE FAMIGLIE


La modestia della pena (da 80 a 100 euro) non deve trarre in inganno, resta la gravità della sentenza di cui leggeremo le motivazioni tra quindici giorni. Gli argomenti per sostenere lo “stato di necessità” c'erano tutti, dall'orientamento prevalente nella giurisdizione, favorevole all'assoluzione, alle circostanze, ampiamente documentate, in cui le famiglie sono state private di qualunque alternativa allo sfratto esecutivo.

Le testimonianze degli impiegati del Comune hanno confermato quelle della difesa: nessuna vera alternativa, che non fosse la divisione delle famiglie nei dormitori e nei centri di accoglienza, poteva essere offerta dall'assessorato ai Servizi Sociali. Tutti gli aspetti del problema abitativo in città sono stati ripercorsi con sufficiente chiarezza: la residualità dell'edilizia residenziale pubblica, la ridotta efficacia degli strumenti di prevenzione degli sfratti, il carattere escludente del mercato privato delle locazioni per famiglie con salario intermittente. Tutto questo argomentare, riassunto in una lucidissima arringa finale di Caranzano, non ha minimamente influenzato l'orientamento del pubblico ministero e la decisione del giudice.
A conclusione di questo processo i nostri critici, anche quelli più disinteressati, potranno dire che “occupare è reato” e potranno attribuire alle famiglie che faticano a sbarcare il lunario le responsabilità della crisi sociale in corso. Insomma, se sei povero è colpa tua. Nelle conclusioni del pubblico ministero e nella decisione del giudice c'è proprio questo assunto, prontamente ripreso con lode dall'assessore Verrua qualche giorno dopo. In una intervista televisiva ha rincarato la dose sostenendo che le famiglie disponevano, al momento dell'occupazione, di un reddito superiore al limite di accesso all'edilizia residenziale pubblica. Dunque, non avevano fatto il possibile per risolvere il loro problema abitativo sul mercato privato delle locazioni e in più avevano approfittato (o si erano fatte strumentalizzare) dall'orientamento “politico” della associazione. L'ennesima negazione del problema.
Per dare veridicità a questo assunto il Procuratore e i giudici nonché l'assessore Verrua hanno usato impropriamente gli estratti conto previdenziali dell'Inps, trasformando le retribuzioni figurative in retribuzioni reali. Questa manipolazione è servita per fare della questione dei redditi una prova della malafede delle famiglie e della inconsistenza della tesi dello “stato di necessità”. I volontari dell'associazione e le famiglie verificheranno se ci sono le condizioni per una querela collettiva all'indirizzo dell'assessore e faranno ovviamente di questa questione l'argomento principale dell'eventuale ricorso.
Dalle parole dei giudici esce implicitamente un pessimo giudizio sull'associazione, quanto meno un fraintendimento dell'enorme mole di lavoro sviluppata dai volontari. Argomentare la sostanziale negazione del diritto alla casa nel contesto delle vigenti regole sociali, ben oltre la responsabilità delle singole famiglie ed agire di conseguenza contro l'astrattezza della politica ufficiale, sono attività ignorate oppure annoverate tra quelle strumentali ad interessi “fuori campo” (Verrua docet). E' proprio questo rinchiudere il problema dell'emergenza abitativa nel campo d'azione e dunque delle responsabilità degli “occupanti” il frutto più avvelenato di questo processo. Si offre così l'ennesimo argomento, oltre il pregiudizio e la falsa coscienza, a chi vuole chiudere la vicenda con un atto repressivo, come se il problema abitativo fosse un problema di ordine pubblico.
Ancora è presto per giudicare se questa sentenza è il frutto di un orientamento della Procura, alcune osservazioni però si possono fare. L'idea che l'episodio delle zecche possa avere agito in qualche modo sulla sensibilità dei giudici, può apparire a prima vista del tutto fuori luogo, però rimanda ad una questione, la percezione del contesto sociale, che non ha nulla a che fare con le modalità e i ruoli del processo perché attinge direttamente alla temperie culturale del momento. Gli avvocati non hanno l'obbligo della verità, i pm hanno invece ce l'hanno, i giudici devono farsi una idea della verità nel corso del processo, tutto questo non condiziona minimamente, oppure appena appena sopperisce ad una cattiva percezione del contesto sociale.
Tutte le prove portate al processo, gli accessi alle agenzie interinali, le modalità di erogazione del reddito, gli appuntamenti infruttuosi con assessore, sindaco e funzionari dell'assessorato ai Servizi Sociali, gli appuntamenti senza esito con le agenzie immobiliari e con l'agenzia Casa del Comune, la composizione del nucleo familiare, la storia recente delle famiglie per dare conto dell'improvviso collasso economico dopo anni di relativa tranquillità, tutte queste prove, moltiplicate per il numero delle famiglie, non sono state sufficienti ai giudici per dimostrare lo “stato di necessità”.
In questo scenario, in questo modo di disporre persone e relazioni sociali, di indagarne i nessi, passa del tutto inosservato il gesto di dignità e di coraggio delle famiglie che consapevolmente si sono sottratte alle regole dominanti, essenzialmente mercantili e dunque indifferenti ai bisogni reali delle persone. Ed è passato inosservato il valore costituente dell'azione sbrigativamente rubricata come “occupazione”. Le famiglie hanno agito un atto di sovranità e si sono comportate secondo valori e regole conseguenti.
Via Allende non è un bivacco, in cui ogni regola è sospesa o provvisoria, non è una accozzaglia di individualità estenuate, disperse. No, via Allende è una comunità di famiglie che si autogoverna e che diffonde attorno a sé l'idea che i bisogni di vita si possono soddisfare con pratiche sociali collaborative ed inclusive piuttosto che competitive ed escludenti, come sono quelle mercantili.

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