Va
detto che nello scenario sociale e politico delle città
medio-grandi, non c'è alcun segno che mostri un venir meno della
cosiddetta “emergenza abitativa”. A prescindere dalle
analisi degli osservatori e dei soggetti sociali coinvolti, a
prescindere dalle potenzialità politiche del “movimento”, il
report periodico del Ministero degli Interni nonché i dati forniti
dalla locale Prefettura, mostrano che lo stillicidio degli sfratti
per morosità non si è fermato ma continua, con variazioni di
intensità, su tutto il territorio nazionale. Siamo dunque di fronte
ad un bisogno abitativo sempre più insoddisfatto. Dunque il problema
sociale in sé permane, semmai è diventato meno trasparente perché
il malessere che lo accompagna, sempre più costretto nella
dimensione privata, si risolve o si trasferisce lungo canali sociali
al momento difficilmente esplorabili. Due sono le cause, come
vedremo più da vicino, che hanno determinato questo stato di cose.
La sterilità politica del “movimento” e le politiche
filantropiche e di riduzione del danno, così estese e
istituzionalizzate (enti pubblici e il cosiddetto privato-sociale) da
funzionare, nei confronti della parte di popolazione “fuori
mercato” (ma non per questo esclusa dalle pratiche predatore del
capitale finanziario), come un dispositivo di assoggettamento.
Non c'è dunque nulla di pacificato, soprattutto perché le cause
strutturali dell'emergenza non sono rimosse e rimandano, come in un
caleidoscopio, agli altri aspetti della presente “crisi”, ben
radicati nelle contraddizioni del mercato e del capitale finanziario:
la precarietà dei redditi e, nelle realtà urbane, un
assetto della proprietà immobiliare incompatibile con l'esercizio
dei più elementari diritti di cittadinanza. La realtà è sempre
più quella riassunta nello slogan “famiglie senza casa e case
senza famiglie”. Addosso a questa realtà urbana e in assenza di
conflitti politicamente forti, si sviluppano altre pratiche
mercantili, variamente localizzate e definite - la gentrificazione,
la monocultura, i quartieri fortezza, il social housing - che
orientano lo scenario urbano secondo le dinamiche del profitto e
della rendita. Vale a dire, la città non è più di chi l'abita,
non è più il luogo che accredita diritti e si riconosce in una
comunità.
1)
L'esito su descritto, visto attraverso l'esperienza del Coordinamento
Asti-Est, documenta la chiusura senza alternative di una fase.
Psicologicamente è come trovarsi ad un bivio senza avere nessuna
indicazione sulla direzione da prendere. Gli effetti sono
l'incertezza e le incognite di una sosta a tempo indeterminato; un
tempo che fatalmente ha delle dimensioni personali imperscrutabili.
In quanto alla Associazione, come soggetto collettivo, è già
evidente, soprattutto nel venir meno di una quota maggiore della
militanza, una al momento irrimediabile perdita di slancio e di
ruolo. Sono le condizioni che annunciano una chiusura
dell'esperienza. Un esito che non è fatale ma anche solo darne
l'annuncio in via di ipotesi, impone un bilancio e una riflessione
sul lungo periodo. Giova ricordare allora che l'esperienza del
Coordinamento Asti-est (Associazione di volontariato sociale,
definizione come da statuto L.266/91) si è sviluppata in due
fasi. L'anno di svolta è stato il 2007. Una periodizzazione
imposta dal contesto sociale e politico. Ci sono stati i cambiamenti
di missione politica delle istituzioni, la perdita di ruolo del
movimento operaio tradizionale e infine il sopravvenire di una
“nuova” formazione sociale, dove chi è rimasto “sotto” è
stato in gran parte assoggettato e chi è rimasto “sopra” ha
iniziato ad esercitare il potere in forme assolutamente inedite. Una
“moderna” oligarchia è il modello che ricorre più
frequentemente nei testi della critica sociale. In questo senso
l'esperienza del Coordinamento si è consumata tutta entro il
periodo storico della rivincita neoliberista, della ascesa del
liberismo come sistema sociale e politico fino al suo stallo presente
e alla sua apparente onnipotenza. Non è stata una esperienza in
solitudine, si è invece moltiplicata sul piano nazionale, nelle
città e nei territori e in questa dimensione ha attraversato i
“movimenti” nel periodo della loro massima vitalità, quando
l'attivismo si coniugava con la certezza di una alternativa, di un
cambio di paradigma. E' stata dunque nel suo insieme una esperienza
che ha fatto parte di quel vasto tentativo di sovvertimento del
presente, ricchissimo di pratiche sociali e di culture critiche,
felicemente riassunto nello slogan “un altro mondo è possibile”.
2)
In quel momento, il volontariato sociale di ispirazione laica, in cui
il Coordinamento si riconosceva, si
distingueva nettamente dal volontariato cattolico perché
“doveva concorrere, in piena autonomia, con gli enti pubblici, a
rimuovere le cause della emarginazione sociale” (da
uno dei testi di uno dei leader nazionali del CNV, “una
associazione di volontariato sociale non è una associazione
filantropica”).
“Autonomia” e “rimuovere” le parole chiave, il netto
distacco, almeno nelle intenzioni e nel modo di procedere, da
pratiche filantropiche e di riduzione del danno, quelle stesse
pratiche che in seguito, accresciute di attori fino a diventare un
pezzo di società (vedi Roma Capitale), si configureranno come
dispositivi di assoggettamento della parte di popolazione privata di
ogni welfare ma inclusa nelle pratiche predatorie della oligarchia.
Una missione che ha auto la sua fonte nel particolare momento
storico, era il 1991, nonché nella legge 266 appena approvata;
esplicitata non a caso nel testo dello statuto dell'Associazione,
ribadita ogni anno nella “relazione di attività”. Una
missione che nel momento in cui è stata lanciata, ha trovato larghe
conferme nelle culture politiche dei militanti, per i quali in
seguito, in condizioni mutate, ha rappresentato una sorta di
caposaldo ideologico.
2)
Era da tempo che i fatti passavano vicino alle parole della
Costituzione del 48, senza vederle. Via via, nel corso degli ultimi
decenni, la mutevole realtà dei rapporti sociali, politici ed
economici ha sciolto il senso di quelle parole fino a ridurle a vuota
retorica; la stessa retorica della “prima parte della
Costituzione sottratta alle riforme” del più recente
argomentare della Boschi e soci. Alla fine di questo processo, cioè
nel presente tempo storico, la costituzione materiale della
società si presenta come un rivoluziona-mento di quella che faceva
da sottostante alla Costituzione del 48. I nuovi rapporti di
potere, cristallizzati nella legislazione ed estesi ben oltre i
territori nazionali, configurano come è stato detto, una “moderna”
oligarchia, essendo la sovranità sottratta al popolo e la
repubblica fondata sul lavoro una nostalgia di vecchi bolscevichi.
I popoli sono sudditi di “lor signori”, vale a dire i soggetti
economici e finanziari del mercato globale, che esercitano la
sovranità in una forma che non ha più nulla a che fare con quella
delle costituzioni liberali. Il governo è affidato ad una élite
politica di tecnocrati ben pagati, in istituzioni prive di
legittimazione democratica, il cui compito principale è quello di
assicurare che il processo di valorizzazione del capitale non si
interrompa. Le nuove tecnologie e i nuovi saperi, sussunti in
quel processo, rendono quella sovranità inafferrabile, la
de-territorializzano, la implementano persino in forme democratiche,
di una democrazia estenuata che ha smarrito il suo antico
protagonista. In forme diverse è tornato il vecchio comitato
d'affari della borghesia, con una classe dominante che ha progredito
nel suo potere con atti a vocazione costituente, manomettendo, se
necessario, le Costituzioni antifasciste ancora formalmente in
vigore. J.P. Morgan docet.
3)
Dentro questo contesto storico e in relazione ad esso, si è
chiuso un ciclo di mobilitazioni in difesa del diritto all'abitare.
Poiché il “movimento” non ha avuto nulla di sovraordinato -
circostanza che è stata la sua forza e la sua debolezza – è
impossibile fornirne una analisi “complessiva” e neppure un
bilancio “complessivo” autorevole. Il “movimento” si è
radicato sui territori, acquistandovi forza e senso politico,
pertanto è sui territori che un bilancio si può fare, anzi si deve
fare, escludendo l'ipotesi che quell'esperienza sia stata
effimera, non abbia lasciato tracce, sia irrimediabilmente perduta.
Diversamente a che servirebbe un bilancio ? D'altra parte basta la
lettura dei quotidiani, con uno sguardo europeo, per rendersi conto
di un attivismo a volte estenuato a volte fortemente politico (vedi
Spagna). Certamente tutto al limite di un cambiamento di paradigma
sociale, qualche volta un annuncio, qualche volta una traccia, altre
volte brutalmente represso (vedi le misure di polizia verso gli
attivisti di Roma e della valle Susa). Adesso il “movimento” in
Italia misura in vario modo, in tutti i territori, l'esito
politicamente sterile delle passate mobilitazioni. Non è spento,
qualche volta si riaccende per riportare in piazza le ormai scontate
rivendicazioni, più recentemente prova a misurarsi con la nuova
espressione del potere istituzionale. L'ascesa dei 5 stelle ha
portato nelle amministrazioni brandelli di cultura critica e
intellettuali (Berdini, Montanari) la cui attività è stata contigua
ai movimenti. Per quella via potrebbero crearsi le condizioni di una
rottura dei dispositivi di assoggettamento di cui si è detto. Certo
non per decreto, ma attraverso la partecipazione che quella
cultura critica può promuovere. E' una ipotesi, insieme ad
altre, che qui viene presa in considerazione perché riguarda una
materia di più stretta esperienza e conoscenza dell'associazione.
4) I
percorsi di conoscenza/presa di coscienza, fatti da militanti
e famiglie, per strutturare e dare senso ai contrasti degli sfratti e
alle occupazioni, sono stati una propedeutica per un soggetto sociale
candidato ad essere politicamente autonomo. Le occupazioni in
particolare, al loro inizio, potevano considerarsi il risultato
provvisorio di un soggetto sociale capace di autogoverno e
contro-potere. Poi queste azioni collettive e pubbliche hanno tradito
la loro promessa, meglio, i loro protagonisti sono stati indotti a
non superare la soglia del “politicamente corretto”, del
culturalmente compatibile. Dunque anche Asti un ciclo si è chiuso.
Come è stato detto il cambio di fase si è avuto attorno al 2007,
quando nello scenario sociale della città sono comparsi i cosiddetti
“naufraghi dello sviluppo”, cioè persone/famiglie spogliate
di ogni diritto, figure del lavoro precario, espulse dal mercato
delle locazioni e affidate ad un welfare ormai avviato alla
residualità. In questo nuovo scenario, mentre il soggetto
sociale che incarnava la cultura dei diritti andava perdendo se
stesso, la missione originaria del Coordinamento è stata messa,
come già detto, forzatamente in discussione. L'idea di
“concorrere”, con gli enti pubblici, a rimuovere le cause
dell'emarginazione sociale, che aveva ispirato tra l'altro l'impianto
della 266, è stata travolta, insieme al linguaggio che la
proponeva. L'emarginazione sociale di cui potevano essere
vittime, per responsabilità propria, i “naufraghi della vita”,
ha lasciato il posto ad un esteso malessere sociale le cui cause
strutturali venivano occultate e perpetuate in un dichiarato stato di
eccezione o di emergenza. Così, i “naufraghi dello sviluppo”
hanno iniziato ad essere una componente della “nuova” formazione
sociale, gruppo sociale potenzialmente eversivo e perciò da
tenere sotto controllo.
5)
In questa seconda fase, il ciclo di mobilitazioni in difesa del
diritto all'abitare ha conosciuto il suo momento politicamente più
alto. Nelle azioni di contrasto degli sfratti, ma soprattutto
nelle “occupazioni” di edifici pubblici e privati, altrimenti
destinati all'abbandono o alle sorti imprevedibili del mercato
immobiliare, c'era l'annuncio di un cambio di paradigma sociale.
Semplificando pareva che si riaprisse la strada della “uguaglianza
sostanziale”, quella promessa nella “Repubblica fondata sul
lavoro” dall'articolo 3 della Costituzione. Contemporaneamente,
nel contesto nazionale, si sono moltiplicate analoghe mobilitazioni e
ha preso corpo un “movimento” con una potenzialità politica
di cui la manifestazione di Roma dell'ottobre del 2012, “assediamo
i ministeri”, è stata la prima e purtroppo unica espressione. Fin
dallo svolgersi di quella iniziativa è risultato chiaro che i
dispositivi di controllo di quel potere “assediato nei ministeri”
avrebbero avuto la meglio su ogni possibile sviluppo eversivo del
movimento. In quel passaggio, i militanti del “movimento” e
quelli del Coordinamento con loro, hanno creduto di aver accumulato,
nella loro esperienza, in primo luogo sui territori, embrioni di
contro-potere, capaci di durare ed espandersi (nelle forme dei forum
sociali prima e delle coalizioni sociali dopo). In altri termini i
militanti del movimento, hanno creduto di poter produrre, dentro i
conflitti e in una situazione di incipiente crisi sociale, il salto
di coscienza necessario per passare dall'opposizione ai primi
risultati concreti di una futura alternativa di società. Non più
individualismo proprietario, competizione senza regole, un potere
sempre più astratto, una smisurata disuguaglianza ma cooperazione
sociale, solidarietà, uguaglianza, insomma un “noi” ritrovato. I
militanti e le persone/famiglie coinvolte nella mobilitazione hanno
creduto intensamente in questa prospettiva e vi hanno adeguato ogni
loro azione, ordinandone valori, pedagogia e linguaggio. Si trattava
di capovolgere l'ordine dominante delle cose, mettere le persone
prima delle astrazioni della politica, i diritti prima dei vincoli
del mercato, la cooperazione prima della competizione senza regole.
Niente di inventato, era già accaduto altre volte nella storia.
Niente di gratuito, la tutela dei diritti e la rimozione di ciò che
ne limita l'esercizio è scritta, in forma di promessa in
Costituzione (art.3). Aprire le “occupazioni” alla città, per
dire che la città è di chi l'abita e non del partito del mattone.
Fare delle occupazioni atti pubblici “a vocazione costituente”,
ponendo l'accento sulla natura non solo mercantile della proprietà.
Le occupazioni aperte alla città, per sottrarle alla tentazione di
viverle come un atto privato, per sottrarle alla minaccia di viverle
come un atto illegale, questa è stata la pratica sociale del
Coordinamento per molti mesi e il terreno di un confronto con il
potere pubblico e con l'opinione pubblica meno conforme della città.
6)
Il confronto non è stato solo un colloquio tra sordi, come potrebbe
sembrare, ma nelle mani dell'assessorato è diventato uno strumento
delle politiche dell'emergenza e dell'austerità. Le sue modalità
sono state quelle dell'elusione, del giudizio sospeso, degli annunci
e dell'inconcludenza. Esattamente le modalità conformi alle
politiche di cui si è detto. Solo le iniziative pubbliche rompevano
queste modalità. Quando hanno avuto come obiettivo l'interruzione
della riunione del Consiglio Comunale, hanno indotto i consiglieri a
sottoscrivere ordini del giorno favorevoli al riconoscimento delle
famiglie occupanti e sotto sfratto come un soggetto sociale. Ma è
stata solo una suggestione del momento, non c'è stata mai verso le
famiglie nessuna chiamata di responsabilità, nessun riconoscimento
dei loro diritti di cittadinanza, nessun tentativo di superare la
dimensione privata dei problemi. Un tale riconoscimento sarebbe
stato incompatibile con le politiche dell'emergenza, con la necessità
di oscurare sistematicamente le cause strutturali del problema delle
abitazioni. Questo è stato il “dialogo”, non convenire su nulla
per lasciare che la dimensione personale dei problemi soffocasse ogni
tentativo di riportare in pubblico un grave problema sociale,
evitando così che resuscitasse quel “noi” che si era
affacciato nelle occupazioni e nel contrasto degli sfratti.
Quegli embrioni di contro-potere sono stati così via via isolati e
trattati sistematicamente come corpi estranei. Sindaci e tribunali,
con tutti gli strumenti a loro disposizione, hanno eretto attorno a
quelle esperienze un recinto di illegalità per troncarne ogni
possibile libero sviluppo. Occupanti senza titolo si, cittadini
mai. Lo sforzo dei militanti e delle famiglie di rompere questo
recinto con iniziative pubbliche e contro-narrazioni non è riuscito
nel suo intento. Embrioni di coscienza politica attorno a fragili
esercizi di contro-potere non sono stati sufficienti per aprire
varchi in quel recinto, per fissare nei comportamenti delle famiglie
occupanti e sotto sfratto uno stabile distacco dalla cultura
dominante. Il “noi” solido e strutturato, capace di esprimere
una tensione durevole all'autogoverno è rimasto costantemente un
annuncio. Da una parte i militanti che lo predicavano, sulla base
di esperienze esaurite da tempo, non dovendosi curare troppo della
loro condizione materiale. Dall'altra parte le famiglie occupanti la
cui presente condizione materiale era di ostacolo ad una definitiva
presa di coscienza. Questa disarmonia che fino a quel momento era
rimasta occultata, si è poi manifestata provocando tra i
militanti discussioni senza costrutto, fin troppo cariche di vecchie
culture politiche, escludenti. Alla fine di questo periodo non
breve, il “movimento” appare oggi come un soggetto sociale
estenuato da una azione prolungata e politicamente sterile.
7)
Si è detto che la presente condizione materiale era di ostacolo ad
una definitiva presa di coscienza, ma ha fatto da ostacolo
soprattutto perché coltivata dalle politiche filantropiche e di
riduzione del danno dell'assessorato di cui lo stato di eccezione
fa organicamente parte. Ecco dunque implementato un dispositivo di
assoggettamento: dialogo inconcludente, politiche filantropiche e di
riduzione del danno, stato di eccezione indefinito versus condizioni
sociali già segnate da bisogni insoddisfatti, brandelli di coscienza
conforme, l'assillo di una quotidianità minacciata dalla precarietà.
E quando si dice politiche filantropiche significa relazioni di
sudditanza e subalternità, conformità alle regole dominanti, le
interiorizzazioni del potere che mutilano l'essere sociale e ne
fanno il destinatario disciplinato di decisioni altrui. Questa
reazione dei poteri costituiti è qualcosa di più di una sconfitta
sul campo. E' una sorta di attacco dalle retrovie che si aggiunge
all'attacco frontale condotto a colpi di legge 80 e di riforme della
Costituzione e che spiega in parte la blanda reazione ad un
provvedimento che in un colpo solo chiude l'edilizia residenziale
pubblica, criminalizza la povertà (art.5) e finanzia con il social
housing un mercato immobiliare altrimenti bloccato dai suoi stessi
limiti forsennatamente mercantili (tutta la stagione del costruire
per vendere anziché per abitare). Per non parlare della “schiforma”
che se realizzata sarebbe l'ennesimo tradimento delle promesse della
Costituzione del 48 oltre che un allineamento alle regole della
oligarchia di cui si è detto. In questo contesto, tutta la
legislazione sulla erp, fino alla lr 3/2010 e seguenti, scritta con
il proposito di garantire il diritto alla casa ai ceti popolari,
funziona come ulteriore ingranaggio del dispositivo di
assoggettamento di cui si è detto, perché senza disponibilità vera
di alloggi, sono di più le persone/famiglie che la legge esclude e
recinta, in graduatorie inesauribili, di quelle che include nel
bisogno abitativo soddisfatto.
8)
Ad Asti come altrove le ipotesi di una alternativa sociale appaiono
adesso tanto più remote quanto più stringente si è fatta l'analisi
critica del momento e della situazione. E' come se le potenzialità
politiche rivelatesi attorno alla manifestazione dell'ottobre del
2014, sorte in un reale conflitto sui territori, si fossero
provvisoriamente inabissate nel magma dei generali processi di
globalizzazione, e lì fossero in attesa di essere nuovamente colte.
Chi scrive queste note pensa
che anche i militanti del Coordinamento debbano assumere una
posizione di attesa, coltivando l'inquietudine, riportando nella
dimensione personale la passione per la politica, facendo un buon uso
delle macerie dell'organizzazione. Non sono in pochi quelli che
tentano di tenere in vita il fantasma del Coordinamento, persino
nell'assessorato ai Servizi Sociali. In fin dei conti i “fantasmi”
come le “talpe” avvertono che nell'immanenza le possibilità del
reale sono infinite.
Asti
09/11/16
Nessun commento:
Posta un commento