Ci
auguriamo che l'articolo della giornalista della Nuova Provincia non
provochi solo riflessi d'ordine ma anche qualche utile riflessione,
che peraltro merita. La nostra è quella che segue.
Intanto
quel che si vede è importante ma qualche volta è più importante
quel che non si vede. In questo caso è l'incapacità del potere
pubblico di dare una risposta ad un gravissimo problema sociale. Le
occupazioni ad Asti sono quattro e non tutte sono “fuori controllo”
come quella di Corso Volta/Corso Casale, mentre le occupazioni sul
territorio nazionale sono centinaia e tutte insieme hanno come
protagonisti persone/famiglie con redditi precari e dunque espulse
dal mercato privato delle locazioni. Sono centinaia di migliaia di
persone/famiglie a cui è negato il diritto all'abitare.
Inoltre
questo mercato escludente è fermo e il recente riavvio annunciato
dai costruttori è legato alle disponibilità di reddito di un ceto
medio non ancora impoverito. Che quel mercato, nei tempo d'oro, fosse
largamente speculativo e fosse sostenuto con grande leggerezza dalle
banche, è un giudizio così condiviso da formare ormai una
letteratura. E le prove, evidentissime sono sotto gli occhi di tutti,
ad Asti come altrove. I due edifici di cui si parla ne sono un
luminoso esempio. Infatti su quelli le ipoteche maggiori sono delle
banche.
Se
le cose stanno così, è un pretesto affermare che quegli edifici non
si vendono perché sono occupati. Non si vendono perché, rimessi sul
mercato, con quelle caratteristiche popolari, rimarrebbero vuoti,
esattamente come quelli appena costruiti del Social Housing di Piazza
d'armi. In più nel 2014 è stata approvata una legge che mentre
finanzia quella formula in inglese, pone fine alla edilizia
residenziale pubblica e “criminalizza la povertà” (Paolo
Berdini, assessore all'urbanistica della giunta Raggi a proposito
dell'art.5 della stessa legge, che vieta di riconoscere la residenza
a chi “occupa” e vieta l'allacciamento dei servizi alle case
“occupate”). Insomma un muro di case vuote, un patrimonio
pubblico a svendere, per perpetuare l'emergenza abitativa.
Certo,
quel che si vede è anche il segno di un fallimento, in questo caso
del Coordinamento Asti-Est e più in generale l'esito politicamente
sterile delle migliaia di azioni del movimento di lotta per la casa.
In questo fallimento c'è la perdita di senso di quelle azioni.
L'esercizio di un diritto a fondamento costituzionale, iniziato con
un atto di disobbedienza civile, una somma di responsabilità assunte
pubblicamente, il buon uso degli edifici occupati e infine
l'occasione per mettere in agenda uno statuto della proprietà,
sottratto agli interessi del partito del mattone. Questo era il senso
di quelle azioni.
L'illusione
che noi, militanti del Coordinamento, abbiamo coltivato è che questo
senso potesse in qualche modo essere riconosciuto dal potere pubblico
e dalla parte meno omologata della popolazione della città. Invece,
non solo non è stato riconosciuto ma è stato sistematicamente
corrotto e svilito erigendo attorno a quelle esperienze, le
occupazioni, un recinto di illegalità, opponendo alla legittimità
di un diritto, la legalità burocratica di leggi e norme, riducendo
sessanta famiglie, centinaia di persone in carne ed ossa, alla fredda
categoria sociologica degli “occupanti senza titolo”.
Ora
quelle famiglie tentano di uscire da quel recinto con comportamenti,
quelli descritti dalla giornalista, che sono conformi alla cultura
dominante, “ognuno per se e dio per tutti”. Perché stupirsi e
perché menare scandalo. Noi ci auguriamo che quel recinto di
illegalità sia rotto, a cominciare dagli edifici di proprietà
pubblica, e che gli “occupanti”, finalmente riconosciuti come
cittadini, siano chiamati a condividere regole e progetti. Gli
strumenti per fare il primo passo ci sono, la requisizione
temporanea, il comodato d'uso. In molte città se ne parla, in molte
città si prendono provvedimenti conseguenti.
Michele
Clemente, Carlo Sottile
Asti
28/09/16
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