La nostra ostinazione
nell'argomentare ciò che facciamo, è nota a tutti i nostri
interlocutori. Inoltre per evitare ogni astrazione mettiamo a
confronto i nostri argomenti con i bisogni, le speranze e i drammi,
nonché i pregiudizi e la falsa coscienza, di chi si affaccia ai
nostri sportelli di segretariato e poi, accettando la nostra
pedagogia, ci accompagna. L'abbiamo chiamata pedagogia della
partecipazione consapevole. E' per questo che le nostre “occupazioni”
non sono bivacchi o l'esito di un malessere fuori controllo oppure
azioni avventate di chi ignora il contesto. Sono invece progetti
razionali e condivisi, assunzioni di responsabilità (comprese quelle
che derivano dalla disobbedienza ai codici, abbiamo sei processi in
corso), azioni pre/meditate e necessitate in un contesto dove i
poteri dominanti si sono prodigati, nel corso di 20 anni, a negare
diritti della persona e sociali. Questo è il tempo presente, queste
sono le “occupazioni”, non altre. Basta un minimo di onestà
intellettuale per riconoscerle.
Ecco perché non ci è
piaciuta l'intervista rilasciata dall'assessore Vercelli alla Nuova
Provincia (venerdì 10 gennaio). Troppe ambiguità, troppe omissioni.
L'assessore ha detto di
aver fatto le “occupazioni”, ma solo simboliche. Che vuol dire
simboliche, che sono finte, non condivisibili ? Chi di noi c'era
assicura che si trattava di persone in carne ed ossa i cui bisogni di
vita erano soffocati per ragioni di mercato, esattamente come adesso.
Solo che adesso la crisi e le politiche dell'austerità hanno
trasformato una emergenza (fenomeno di cui si può prevedere nonché
controllare l'intensità e la fine) in una condizione sociale con
cause strutturali, che permarrà fino a che quelle cause non saranno
rimosse. Non a caso si parla di un salario che non c'è e di una
disuguaglianza che si è fatta sempre più iniqua. Non a caso il
movimento di lotta per la casa, dal 19 ottobre (la grande
manifestazione di Roma) ha abbracciato il tema più ampio del diritto
alla città e al territorio.
L'unica
risposta possibile alla fame di case sarebbe l'housing
sociale ? Basta
leggere la descrizione che ne fa la Regione Lombardia nel suo sito
web per avere qualche dubbio. Chi progetta sono
le cooperative edilizie (ad
Asti la Confcooperative),
le fondazioni immobiliari ed altri soggetti che agiscono sul
“mercato” della casa. I
contratti di affitto sono quelli a canone calmierato della legge 431.
I destinatari sono i cittadini con reddito medio basso. I canoni di
locazione (Fonte:
Elaborazioni Nomisma su Rassegna Progetti EIRE 2010), variano dai 308
euro/mese di Parma ai 600 euro/mese di Milano. Un fatto è certo, i
destinatari dell'housing sociale non si trovano tra i 730 aspiranti
assegnatari della graduatoria Atc, tra le 130
emergenze abitative censite dall'assessorato, tra i 50 occupanti, tra
i molti
cittadini
sfrattati e sotto sfratto. Perché
non
dirlo
? Perché
non ammettere che l'housing sociale, anche
nella
forma delle residenze temporanee o di ausilio agli accompagnamenti
socio/sanitari, può avere un ruolo positivo solo a condizione che il
bisogno abitativo sia in gran parte soddisfatto ?
E
perché sorvolare
sull'altro fatto incontrovertibile, vale a dire la residualità
presente e storica della offerta di case popolari in Italia (5%
del totale dell'edilizia residenziale a confronto di una media
europea del 30%).
Non
cogliere
il nesso evidentissimo (nella
realtà e nella legislazione a tutela della proprietà di questi
ultimi 20 anni)
tra questa residualità e lo sviluppo di un mercato immobiliare,
speculativo ed escludente, significa
sminuirne gli effetti, escludere
l'adozione di efficaci misure di contrasto (le requisizioni e gli
espropri, ma
anche progetti di auto-costruzione e di comodato d'uso).
Questi
effetti sono sotto gli occhi di tutti: decine di edifici vuoti da
anni, come quello di salita al Fortino, migliaia
di alloggi invenduti e sfitti e, in
una paradossale unione, centinaia
di persone/famiglie in cerca di casa. Veri
e propri effetti de/costituenti, con una proprietà
senza funzione sociale (art.42) o,
peggio, protagonista di una attività economica in contrasto con
l'utilità sociale (art. 43) e dunque lesiva della sicurezza, della
libertà e della dignità umana.
Il
cenno ai “centri sociali”, contenuto
nell'intervista,
non
è solo ambiguo, è velenoso. Non
è solo una questione di igiene lessicale, quella
locuzione è usata in
modo apodittico
da tutti i commentatori che
negano il valore sociale di quelle esperienze.
Per
questi commentatori, secondo
l'intensità del loro
riflesso
d'ordine, i “centri sociali” sono covi di sovversivi, bivacchi di
gentaglia, luoghi che proteggono l'illegalità purchessia e
assecondano le devianze più pericolose. Nella migliore delle
ipotesi, quella
suggerita dall'assessore per lo spazio sociale della ex Mutua,
turbano
la quiete pubblica perciò non meritano alcun interesse, salvo
quello dei vigili urbani, delle varie polizie, dei vigili del fuoco.
Interesse
peraltro
più volte soddisfatto. L'ultima,
con una ispezione, avvenuta il giorno 19, in tardissima
serata, che ha interrotto una assemblea pubblica convocata per
discutere proprio delle nefandezze del presente mercato immobiliare
(vendita
immobili Asl, porta del Monferrato, agrivillage).
Perché
non accettare l'idea di uno
spazio aperto alla città, in cui si auto-organizzano attività di
convivio, educative, espressive, frequentato da chi ha comportamenti
e culture “non conformi” alla cultura dominante e
all'individualismo proprietario
(adesso,
nella crisi, possiamo
aggiungere alla definizione di Pietro Barcellona l'attributo
“irresponsabile”)
? In
luoghi occupati di questo Paese (sono centinaia),
sociologi, studiosi del diritto costituzionale, intellettuali non
comprati da Caltagirone,
precari e sfrattati, sperimentano percorsi e discorsi di una
alternativa sociale e politica a cui noi modestamente con le nostre
azioni crediamo di dare un contributo. Perché
non riconoscerlo ?
Come
è noto, anche
le ambiguità e le omissioni danno senso ad un discorso. Non
è difficile cogliere in
quello
dell'assessore l'intenzione di uniformarsi
alle
ragioni
dell'establishment nostrano,
della classe politica che siede in Consiglio Comunale, degli
interessi che rappresenta, partito
del mattone compreso.
Fuori
da quelle ragioni,
sembra
dire,
c'è solo il temerario velleitarismo dell'associazione,
il
Coordinamento Asti-Est,
che è stata anche la sua. Se
è così, è
un peccato. Certo non
gli
manca una
nuova
compagnia,
dalla
Commissione Europea
in giù è tutta una unanimità. Perchè
non ammetterlo ? Forse
ne guadagnerebbe in concretezza anche il dialogo che
dice di avere con noi.
Diamo
però
atto
all'assessore di “fare
tutto ciò che è possibile”. Ma
gli opponiamo, per
l'ennesima volta,
che “tutto
ciò che è possibile” non basta, se
non si rompono le
leggi, le strutture di potere, i vincoli di una sovranità che è
tutta nelle mani dei
grandi attori del capitale finanziario (consigliamo all'assessore la
lettura dell'ultima fatica di quell'ottimo giornalista d'inchiesta
che è Federico Rampini, “Banchieri,
storie dal nuovo banditismo globale”).
Noi
ci proviamo, con
la fatica di un progetto sociale di solidarietà e cooperazione, con
chi
è senza reddito, senza
casa, senza diritti e
vuole
riguadagnarsi un
ruolo di cittadino, padrone del suo tempo e dei suoi migliori
sentimenti.
Per
il Coordinamento Asti-Est
Sottile
Carlo, Clemente
Michele
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