La richiesta di un uso sociale della palazzina di via Allende, opposta a scelte di abbandono e propositi di vendita, è stata pubblicamente argomentata, da parte della nostra Associazione, in più occasioni. Il fatto di appartenere al demanio, dunque alla categoria dei beni pubblici, dovrebbe rafforzare ancora oggi questa richiesta. Ora, apprendiamo che il governo cittadino ha intenzione di disporne per contrastare l’emergenza abitativa. Bene, l’ipotesi peggiore, circolata in questi giorni, cioè la vendita, sembra essere scongiurata.
Ma sarà proprio così ? Nel corso degli ultimi dieci anni, non c’è stato governo cittadino che non abbia manifestato la stessa intenzione. Eppure la palazzina è ancora lì, con gli ingressi sigillati per la ennesima volta: nell’ottobre del 2019, quando l’ultima famiglia degli occupanti aveva trovato domicilio altrove; in seguito, quando uno o più ignoti senza tetto, violando i primi sigilli, ne avevano fatto il loro domicilio di fortuna.
Guai ai poveri, vien da dire. Infatti, a ben vedere, anche nella ipotesi migliore, quella appena formulata dal governo cittadino, l’insieme dei problemi sociali che hanno fatto da contesto alla occupazione di quella palazzina, si riproporrebbe, assai più impegnativo di prima, per ammissione degli stessi assessori competenti. Vediamo dunque con chiarezza, ripercorrendo, per sommi capi, la vicenda decennale che ha preso corpo (e anima), nella palazzina e dintorni.
La “occupazione” non è stato un atto purchessia, una soluzione d’occasione, una questione privata. I suoi protagonisti, sei famiglie sfrattate senza alternativa alloggiativa e i volontari della nostra associazione, l’hanno vissuta come atto pubblico, necessitato e consapevole, dunque aperto al confronto e, come dicevamo allora, aperto alla città. Analogamente le altre tre, quella di strada Volta, di Salita al Fortino, di via Orfanotrofio.
Nel confronto che è seguito, mentre l’uso sociale della palazzina avveniva di fatto, gli “occupanti” si accreditavano presso il governo cittadino, come soggetto collettivo, rappresentanti, e portatori al tempo stesso, dei bisogni e dei diritti di una determinata categoria sociale, le famiglie sfrattate e le famiglie sotto sfratto. In questo ruolo, sono andati agli appuntamenti che si erano imposti: con il governo cittadino, nel cortile della stessa palazzina e nell’aula del Consiglio Comunale; con la città, nelle vie e nelle piazze; con i giudici, nelle aule dei tribunali.
Quel collettivo non era in solitudine. Era associato ad un movimento di difesa del diritto alla casa, che andava sviluppandosi, senza strutture sovraordinate, in tutti i Comuni “ad alta tensione abitativa”. Cioè quelli con una densità delle procedure di sfratto oltre una certa soglia, elencati in una delibera del CIPE del 2003 con quella definizione.
Prima delle “occupazioni”, l’alta tensione abitativa si manifestava nella contemporaneità di tre circostanze: la precarietà dei redditi di una parte sempre più ampia della popolazione; l’esclusione di quella parte da un mercato delle locazioni, reso più speculativo dalla abolizione dell’equo canone; una edilizia residenziale pubblica, ridotta di ruolo dalle privatizzazioni nonchè dalla abolizione della sua fonte di finanziamento, la Gescal.
Chi, persone ma soprattutto famiglie, non reggeva la sfida di quelle tre circostanze, subiva uno sfratto senza alternativa alloggiativa e andava ad affollare, in una attesa infinita, le graduatorie della casa popolare. In quegli anni, i sindacati nazionali degli inquilini, stimavano in 650.000 le domande inevase.
Oggi, a distanza di 10 anni dalla prima “occupazione”, quelle tre circostanze, mai venute meno, si riconfermano in peggio. La precarietà dei redditi è ancora più diffusa, appena attenuata dai recenti provvedimenti del governo, perché la flessibilità e l’intermittenza del lavoro sono modalità imposte dai “moderni” sistemi di produzione. Il mercato delle locazioni ha trovato un nuovo sviluppo nel cosiddetto social housing, una offerta abitativa, accompagnata da finanziamenti e tutele pubbliche, ma pur sempre appannaggio di chi dispone ancora di un reddito garantito. L’edilizia residenziale pubblica è stata condotta alla residualità con la legge 80/2014, quella che tutela i proprietari piuttosto che gli inquilini, finanzia le dismissioni piuttosto che il recupero, quella che all’art.5 criminalizza la povertà, cioè nega l’allacciamento delle utenze alle persone/famiglie che occupano.
In questo momento, dunque, qualunque sia la sorte della palazzina, il bisogno abitativo è più che mai consegnato ai demoni del mercato, mentre il diritto all’abitare, che dovrebbe essere garantito dal governo della città, è spento nella filantropia e nelle parallele azioni di riduzione del danno. Dunque, privato del suo soggetto, il “noi” degli inquilini e degli assegnatari, è reso inesigibile in un perenne stato di emergenza.
Dovremmo concludere che l’esperienza delle occupazioni è stata inutile ? Certamente no. Non solo perché la tensione abitativa si è accresciuta, ma soprattutto perché in quella esperienza si è affacciato il “noi” di cui si è detto, e attraverso quel “noi” il governo cittadino ha ricevuto, rifiutandole, proposte che altrove venivano accreditate. Un indirizzo utile per mettere fine ad una emergenza dichiarata nel 2008, confermata ogni anno fino al presente e che, misurata con questi tempi, non è più tale; è piuttosto un dispositivo di controllo di un malessere sociale sempre più grave.
In più e in peggio i governi cittadini, con il loro legalitarismo e la loro cieca difesa della proprietà, agendo come se la violazione dell'art. 633 del cp (reato di “invasione di terreni ed edifici”) aggiungesse alla pena prevista, la sospensione dei diritti sociali degli “occupanti”, non hanno neppure saputo (o voluto) raccogliere i suggerimenti che in questo senso, sono venuti dalla maggioranza dei giudici. Sono stati questi ultimi, e non il governo cittadino, che hanno riconosciuto, nelle occupazioni lo “stato di necessità” di famiglie senza alternativa alloggiativa. Sono stati i giudici a riconoscere, negli sfratti esecutivi e nella drammatica incertezza che ne sortiva, le “situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della persona, secondo la previsione contenuta nell'art. 2 Costituzione, fra i quali deve essere ricompreso il diritto all'abitazione”.
Il fondamentalismo legalitario, nonché la mancanza di cultura costituzionale, dei governi cittadini, tuttora confermati, hanno messo uno sbarramento alla cultura dei “beni comuni”, quelli che Rodotà, ha definito come “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”. Tale cultura che, nel 2011, ha ispirato il referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici, ha attraversato anche l’esperienza della occupazione della palazzina di via Allende. Il costituzionalista Ugo Mattei ha tenuto nel cortile della palazzina una conferenza sui “beni comuni” e sulle azioni “a vocazione costituente” necessarie per amministrarli (le occupazioni ad esempio.
Tale cultura, ha accompagnato altrove, in modo assai meno effimero, esperienze di cittadini organizzati, protagonisti, come il collettivo degli occupanti della palazzina di via Allende, di pratiche sociali di tutela ed esercizio dei diritti costituzionali. Tali gruppi, in questo ruolo, hanno avuto un rapporto positivo con le rappresentanze politiche di molti Comuni, convenendo su specifici Regolamenti, “per la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni urbani”. Oppure “per la riqualificazione e il riuso, anche attraverso la concessione a terzi, di beni in stato di abbandono nel territorio comunale”.
A suo tempo, la nostra Associazione ha chiesto ai responsabili del governo cittadino l’esame e la discussione di tali Regolamenti in sede di Osservatorio sul diritto all’abitare. Non sono mai stati esaminati e neppure discussi. L’Osservatorio, dacché è iniziata la pandemia, non è stato più convocato.
Se l’intenzione di disporre della palazzina di via Allende, per farne un uso sociale, venisse dichiarata nell’Osservatorio, piuttosto che ai giornali, forse risulterebbe più credibile. Discutendola, senza tralasciare il contesto sociale a cui rimanda, forse uscirebbe dal limite della ennesima “azione di riduzione del danno”.
09/10/20
Per il Coordinamento Asti-Est
Carlo Sottile
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