Frequento il bar di via Monti dal 95, ultimamente con qualche esitazione, perché ogni volta che varco quella soglia mi si apre un tunnel temporale su una realtà sociale assai diversa dalla presente. I rapporti che prima avevo intensissimi, nella sede del Coordinamento con gruppi di assegnatari o aspiranti assegnatari o, in tempi più recenti, era il 2008, nelle sedi della “programmazione partecipata” del Piano di Recupero Urbano (Centro sociale, Circoscrizione, scuola Gramsci), si sono ridotti al “ciao pascià”, o qualche altro nomignolo identificativo di una antica consuetudine, indirizzato a qualcuno spaparanzato ad un tavolino, seguito dal classico “chi non muore si rivede”.
Ciò che è sparito nel quartiere, non certo per mano divina, sono le forme di soggettività vissute in fabbrica e nel sindacato, scandite dai momenti dell’assemblea e del conflitto. Negli anni 90 ancora vi perduravano sebbene estenuate, più memoria di una generazione che già andava popolando la categoria dei pensionati, che motore della economia reale. Insomma, nel quartiere c’erano ancora brandelli di “autogestione”; c’era ancora un “noi” che escludeva derive piccolo borghesi, come le stigmatizzavamo allora, che conducevano “ognuno raccolto nel suo povero piccolo io”, ad una solitudine, somma di sentimenti negativi.