Lo
sgombero delle tre famiglie dallo stabile occupato di Salita al
Fortino è stato uno sgombero violento. L'apparato militare messo in
campo avrebbe travolto qualsiasi resistenza. Se la resistenza non c'è
stata il merito non va alle famiglie, di cui è stata ipocritamente
lodata la mitezza, ma alla triade – proprietari, assessorato,
questura – che ha fatto terra bruciata attorno al “soggetto
sociale” che dal 2010 e d'intorni ha tentato di ricondurre il
bisogno abitativo all'esercizio di un diritto. Hanno avuto quel senso
tutte le sue azioni pubbliche, contrasto degli sfratti, occupazioni
(quattro in città), cortei e assemblee. Era composto da famiglie
sfrattate, sotto sfratto e dai generosi militanti di una
associazione.
Ora
quel “soggetto sociale” appare esausto, quasi dissolto. Si era
messo “in movimento” con altri omologhi su tutto il territorio
nazionale, aprendosi un effimero spazio politico con la
manifestazione di Roma dell'ottobre 2013. Casa, reddito, dignità è
stata la parola d'ordine di un corteo di decine di migliaia di
persone e famiglie. La risposta del governo e delle amministrazioni
pubbliche non si è fatta attendere. Militanti arrestati, militanti
agli arresti domiciliari, centinaia di persone processate e le
richieste “non conformi” alle leggi della possidenza –
espropri, requisizioni, comodati d'uso di edifici vuoti o abbandonati
– quasi ovunque respinte.
Ma
al fine di mantenere il bisogno abitativo entro i limiti del mercato
e le rivendicazioni degli inquilini entro i limiti di un conflitto a
bassa intensità, è servito l'avvio di un dispositivo di controllo,
composto prevalentemente di procedure e agito a livello di singola
persona, di singola famiglia. Di particolare efficacia, per
assoggettare le famiglie ed esorcizzarne un possibile “noi”, si
sono rivelate le procedure di contrasto dell'emergenza: fondo
morosità incolpevole, agenzia sociale per la locazione. Chi vi
usciva senza aver mutato le proprie condizioni economiche, non poteva
rientrarvi e andava ad ingrossare un più indefinibile e perciò
meno pericoloso, malessere sociale. Il flusso nelle tasche della
possidenza di una più che discreta somma di denaro pubblico, nonché
la domiciliazione e la separazione delle famiglie, per tempi
indefiniti, in una rete di dormitori e centri di accoglienza per
donne e minori, sono state l'innaturale (nel senso di disumano)
compendio di quelle procedure.
Da
questo punto di vista, lo sgombero avvenuto in salita al Fortino e
quelli annunciati sono la naturale conclusione di “un buon lavoro”
fatto dell'ineffabile assessore dalla giunta appena dimessa
dall'elettorato. Puntare il dito contro quella appena eletta, senza
coglierne la continuità con la precedente, è fuorviante.
L'attenzione va fissata sulla “questione abitativa”. Perché è
una questione nazionale non risolta, che si è vieppiù aggravata e
perché quel “soggetto sociale”, adesso estenuato, può
imprevedibilmente risorgere. I funzionari della triade di cui si è
detto all'inizio, la raccontano come una “emergenza”, per
nasconderne il carattere strutturale, cioè il fatto di essere
determinata dalla politica e dalla cultura dominanti. Infatti quella
“emergenza” raccontata, di cui nessuno sa prevedere la fine, si
ripresenta ogni anno uguale a se stessa, dal 2006: stillicidio di
sfratti per “morosità incolpevole”, graduatorie per la casa
popolare affollate e inesauribili, mercato delle locazioni
inaccessibile per famiglie con redditi precari.
Su
tutto il territorio nazionale il bisogno abitativo di una fascia
sempre più ampia di popolazione rimane più che mai consegnato agli
spiriti animali del mercato. Le cartolarizzazioni, l'abolizione
dell'equo canone e l'azzeramento della Gescal degli anni 90, hanno
avviato l'iter legislativo di questo indirizzo, concluso nel 2014 con
la legge 80, la cosiddetta Lupi/Renzi. Quella legge, che in città
nessun assessore, politico, o funzionario pubblico ha criticato,
residua l'edilizia residenziale pubblica (Edr) in manutenzioni e
vendite del suo patrimonio, attribuisce al partito del mattone nuovi
strumenti di gestione del territorio e “criminalizza la povertà
(Paolo Berdini, urbanista, “Le città fallite”, Donzelli
editore), negando la residenza e l'allacciamento delle utenze alle
famiglie “occupanti”.
La
casa non è solo le sue mura, è il luogo dell'accoglienza, del
ritorno, della cura. Le occupazioni, per le famiglie “fuori
mercato”, sono quel luogo. Come lo sono le case popolari per le
famiglie che affollano inutilmente le graduatorie del bando atc.
Cancellare quel luogo o renderlo una chimera non ha prezzo, è solo
il segno di una società incivile. E lo è a maggior ragione quando
le città, come la nostra, hanno un patrimonio edilizio inutilizzato,
esclusivamente affidato alle sorti del mercato immobiliare. Al
momento non ci resta che contare sull'attivismo e la moralità dei
cittadini fedeli alla Costituzione e considerare doverosa la
resistenza a tutti quegli atti pubblici che sconfessano la promessa
di uguaglianza dell'art.3 della Costituzione e negano la funzione
sociale che gli art. 41 e 42 della stessa Costituzione impongono alla
proprietà.
Per
il Coordinamento Asti Est Carlo Sottile
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