Ho appena appreso che l'alloggio dove sono domiciliati la signora Atzeni e i suoi figli, e per il quale la signora credeva di aver sottoscritto un regolare contratto di locazione, non possiede il requisito dell'abitabilità. La notizia è scritta in un verbale di sopralluogo dell'Igiene Pubblica. La signora pertanto dovrà aspettarsi, da un momento all'altro, una ingiunzione di sgombero.
Di questi tempi, di folle speculazione immobiliare e di azzeramento del diritto alla casa, la circostanza rischia di apparire normale. Salvo che, in questo caso, lo sgombero arriverebbe come la ciliegina sulla torta di una asprissima vicenda familiare che ha come co/protagonisti giudici, avvocati, operatori dei Servizi Sociali e dell'Asl ed ha come posta la ricomposizione di una famiglia, nei suoi affetti e nelle sue elementari condizioni di dignitosa sopravvivenza. .
Faccio una premessa. La signora Atzeni, è una donna di carattere, non si lascia imporre nulla che non sia condiviso, non sottostà a comportamenti “conformi” da chiunque richiesti. Questa eccedenza del comportamento, che normalmente è considerata una virtù, non è stata apprezzata degli operatori dei Servizi, salvo alcune lodevoli eccezioni. Cosicché la signora Atzeni è tuttora vittima di esercizi di tutela assai discutibili, non solo ai suoi occhi. Infatti tali esercizi hanno prodotto risultati esattamente contrari a quelli attesi o auspicati, o dettati dallo spirito delle leggi. Tutto ciò giustifica, come cercherò di dimostrare, un atteggiamento di “non collaborazione” della signora, che le è stato continuamente rimproverato.
Vengo ai fatti. La Signora Atzeni, spinta dal bisogno, ha occupato abusivamente un alloggio dell'atc nel marzo del 2007 e lì ha condotto una vita normale per due mesi, avendo come testimoni i volontari della mia associazione. I figli più grandi, Irene e Stefano, a scuola con profitto, il figlio più piccolo, Matteo, in compagnia dei fratelli e più spesso della madre, che lo conduceva con sé nella sua attività di titolare di un pensionato per cani e gatti. Agli sportelli dell'assessorato Servizi Sociali la signora aveva già presentato la domanda di mensa sociale (accolta dopo l'”occupazione”), di aiuto economico e di inserimento in asilo del figlio Matteo (respinte).
Gli operatori dei servizi sociali, sollecitati ad intervenire “sul campo”, si sono fatti vedere due mesi dopo, a maggio, quando l'ordinanza di sgombero, mossa dall'atc senza tanti riguardi, ha costretto la signora e i suoi figli a lasciare l'alloggio. La signora ha dormito in macchina per una notte, poi ha arredato un garage nello stesso stabile dell'atc per farne una dimora provvisoria per lei e il figlio più piccolo. I figli più grandi hanno subito trovato ospitalità presso amici e parenti.
Questa situazione di precarietà abitativa sarebbe stata alla lunga insostenibile ma al momento non era tale da mettere in pericolo le relazioni familiari e soprattutto la relazione, intensissima, tra la madre e il figlio più piccolo. Inoltre permetteva alla signora di svolgere il suo lavoro e di mantenere un reddito, modestissimo ma necessario. Era ancora possibile, nonostante i ritardi, un intervento, più o meno complesso, di tutela della famiglia.
Sono seguiti invece una serie in interventi e di omissioni dei Servizi Sociali che hanno trasformato un bisogno abitativo in un mostruoso, è il caso di dirlo, problema di relazioni familiari. Non c'erano abusi, non c'erano maltrattamenti, solo una precaria sistemazione abitativa e in quella un positivo moltiplicarsi delle relazioni con amici, parenti, vicinato di adulti e piccini.
Non è servita a niente l'istruttoria presentata dalla mia Associazione al tavolo delle “emergenze abitative”, prima ancora che lo sgombero avesse luogo e discussa poi a Giugno. La richiesta di assegnazione di una casa popolare è stata respinta con argomenti costruiti a tavolino. I volontari hanno inutilmente opposto che la casa in cui la signora pensionava cani e gatti non aveva vani abitabili, che gli obblighi scolastici dei figli più grandi potevano essere assolti con un domicilio ad Asti, che smembrare la famiglia in domicili diversi e provvisori risultava inaccettabile agli stessi interessati, che il primo atto da compiere volendo tutelare l'intera famiglia doveva essere l'assegnazione di un alloggio popolare.
Tutto inutile, compreso un estremo tentativo della mia associazione di trovare una ospitalità per la madre e il bambino più piccolo nella comunità di via Testa. Niente da fare, hanno opposto i responsabili, “il posto ci sarebbe ma manca un progetto di inserimento”. A peggiorare irrimediabilmente la situazione, le assistenti sociali hanno fatto pervenire al tribunale dei minori di Torino una relazione che ha costretto il giudice a mettere in dubbio la genitorialità della signora. Si è messa in moto una macchina infernale, alla signora e al suo bambino più piccolo è stato imposto il domicilio in una comunità protetta, agli operatori dei servizi e della comunità il compito di sciogliere il dubbio dei giudici, annunciata l'ipotesi di un affidamento definitivo.
Questa prima relazione (ne sono poi seguite altre dello stesso tenore), è stata presentata come un atto dovuto. Personalmente giudico che questo formalismo nell'usare norme e leggi, a prescindere dalla vita reale e dalle risorse disponibili (ad Asti p.e. Non c'è un centro di accoglienza per famiglie), serve solo a tutelare il ruolo degli operatori (volgarmente, pararsi il culo).
La signora si è trovata da quel momento prigioniera di un progetto di vita non suo, messa sotto esame, costretta dalle assistenti sociali a sottoscrivere una sorta di contratto degli obiettivi da raggiungere e dei comportamenti da agire. Ha dovuto lasciare il lavoro che faceva da anni, trovarsene un altro compatibile con gli orari della comunità, lontanissima dai luoghi abitualmente frequentati, ha dovuto cercarsi un alloggio. Si è arrangiata, in uno scenario sociale difficilissimo anche per una famiglia “normale”. Ha trovato un lavoro con contratto a tempo determinato poi non rinnovato; ha trovato un alloggio usufruendo del “contributo per l'avvio alla locazione” dell'assessorato ma non è riuscita a tenerlo perché il canone d'affitto era troppo alto per le sue tasche; ha trovato un altro alloggio con canone più modesto e adesso minacciano di toglierglielo. Ma soprattutto è stata messa nell'assurda situazione per cui ogni suo atto poteva diventare, nella interpretazione delle assistenti sociali, la profezia di una genitorialità debole che andava adempiendosi.
Sono passati quasi due anni e la signora è ancora prigioniera di quel progetto. Ha potuto frequentare il figlio più piccolo solo nei fine settimana, ha subito impotente il fatale deterioramento dei rapporti con un bambino che ad ogni visita della madre chiedeva ostinatamente di essere riportato a casa. Ha visto con rabbia trasformarsi nel peggiore dei modi la stessa fragile personalità del bambino, fino ad avere il sospetto che nella comunità non fossero osservati e sorvegliati i rapporti con bambini molto più grandi di lui.
Gli avvocati ai quali la Signora si è affidata, ed una psicologa che ne ha inteso le ragioni, hanno cercato di ridurre il danno di questa assurda e drammatica vicenda. Grazie a loro l'osservazione dei giudici è adesso meno approssimata e formale e la minaccia di un affidamento definitivo si è allontanata.
Ma un ritorno alla normalità ripropone ora come determinante la questione della abitazione. L'assegnazione di una casa popolare è un atto dovuto e possibile. L'affermazione che la signora non ne ha diritto perché ne ha occupata una per due mesi nel marzo/aprile del 2007, scritta in un documento del giudice ed evidentemente suggerita dalle assistenti sociali e dall'assessore, è falsa a norma di legge e in questo contesto è semplicemente irresponsabile e vergognosa.
Voglio ricordare, per concludere con un po di amara retorica, che la Corte costituzionale, in una sua recente sentenza, ha compreso l'abitazione “nella sfera dei beni primari collegati alla personalità”, un bene dunque non negoziabile. Mentre qui da noi, se una donna con minori perde l'alloggio deve stare attenta, voce di popolo, “ che le assistenti sociali non le portino via i bambini”.