venerdì 18 novembre 2016

CHE FARE, PER DARE UNA RAGIONE ALL'INQUIETUDINE.



Va detto che nello scenario sociale e politico delle città medio-grandi, non c'è alcun segno che mostri un venir meno della cosiddetta “emergenza abitativa”. A prescindere dalle analisi degli osservatori e dei soggetti sociali coinvolti, a prescindere dalle potenzialità politiche del “movimento”, il report periodico del Ministero degli Interni nonché i dati forniti dalla locale Prefettura, mostrano che lo stillicidio degli sfratti per morosità non si è fermato ma continua, con variazioni di intensità, su tutto il territorio nazionale. Siamo dunque di fronte ad un bisogno abitativo sempre più insoddisfatto. Dunque il problema sociale in sé permane, semmai è diventato meno trasparente perché il malessere che lo accompagna, sempre più costretto nella dimensione privata, si risolve o si trasferisce lungo canali sociali al momento difficilmente esplorabili. Due sono le cause, come vedremo più da vicino, che hanno determinato questo stato di cose. La sterilità politica del “movimento” e le politiche filantropiche e di riduzione del danno, così estese e istituzionalizzate (enti pubblici e il cosiddetto privato-sociale) da funzionare, nei confronti della parte di popolazione “fuori mercato” (ma non per questo esclusa dalle pratiche predatore del capitale finanziario), come un dispositivo di assoggettamento. Non c'è dunque nulla di pacificato, soprattutto perché le cause strutturali dell'emergenza non sono rimosse e rimandano, come in un caleidoscopio, agli altri aspetti della presente “crisi”, ben radicati nelle contraddizioni del mercato e del capitale finanziario: la precarietà dei redditi e, nelle realtà urbane, un assetto della proprietà immobiliare incompatibile con l'esercizio dei più elementari diritti di cittadinanza. La realtà è sempre più quella riassunta nello slogan “famiglie senza casa e case senza famiglie”. Addosso a questa realtà urbana e in assenza di conflitti politicamente forti, si sviluppano altre pratiche mercantili, variamente localizzate e definite - la gentrificazione, la monocultura, i quartieri fortezza, il social housing - che orientano lo scenario urbano secondo le dinamiche del profitto e della rendita. Vale a dire, la città non è più di chi l'abita, non è più il luogo che accredita diritti e si riconosce in una comunità.


1) L'esito su descritto, visto attraverso l'esperienza del Coordinamento Asti-Est, documenta la chiusura senza alternative di una fase. Psicologicamente è come trovarsi ad un bivio senza avere nessuna indicazione sulla direzione da prendere. Gli effetti sono l'incertezza e le incognite di una sosta a tempo indeterminato; un tempo che fatalmente ha delle dimensioni personali imperscrutabili. In quanto alla Associazione, come soggetto collettivo, è già evidente, soprattutto nel venir meno di una quota maggiore della militanza, una al momento irrimediabile perdita di slancio e di ruolo. Sono le condizioni che annunciano una chiusura dell'esperienza. Un esito che non è fatale ma anche solo darne l'annuncio in via di ipotesi, impone un bilancio e una riflessione sul lungo periodo. Giova ricordare allora che l'esperienza del Coordinamento Asti-est (Associazione di volontariato sociale, definizione come da statuto L.266/91) si è sviluppata in due fasi. L'anno di svolta è stato il 2007. Una periodizzazione imposta dal contesto sociale e politico. Ci sono stati i cambiamenti di missione politica delle istituzioni, la perdita di ruolo del movimento operaio tradizionale e infine il sopravvenire di una “nuova” formazione sociale, dove chi è rimasto “sotto” è stato in gran parte assoggettato e chi è rimasto “sopra” ha iniziato ad esercitare il potere in forme assolutamente inedite. Una “moderna” oligarchia è il modello che ricorre più frequentemente nei testi della critica sociale. In questo senso l'esperienza del Coordinamento si è consumata tutta entro il periodo storico della rivincita neoliberista, della ascesa del liberismo come sistema sociale e politico fino al suo stallo presente e alla sua apparente onnipotenza. Non è stata una esperienza in solitudine, si è invece moltiplicata sul piano nazionale, nelle città e nei territori e in questa dimensione ha attraversato i “movimenti” nel periodo della loro massima vitalità, quando l'attivismo si coniugava con la certezza di una alternativa, di un cambio di paradigma. E' stata dunque nel suo insieme una esperienza che ha fatto parte di quel vasto tentativo di sovvertimento del presente, ricchissimo di pratiche sociali e di culture critiche, felicemente riassunto nello slogan “un altro mondo è possibile”.

2) In quel momento, il volontariato sociale di ispirazione laica, in cui il Coordinamento si riconosceva, si distingueva nettamente dal volontariato cattolico perché “doveva concorrere, in piena autonomia, con gli enti pubblici, a rimuovere le cause della emarginazione sociale” (da uno dei testi di uno dei leader nazionali del CNV, una associazione di volontariato sociale non è una associazione filantropica”). “Autonomia” e “rimuovere” le parole chiave, il netto distacco, almeno nelle intenzioni e nel modo di procedere, da pratiche filantropiche e di riduzione del danno, quelle stesse pratiche che in seguito, accresciute di attori fino a diventare un pezzo di società (vedi Roma Capitale), si configureranno come dispositivi di assoggettamento della parte di popolazione privata di ogni welfare ma inclusa nelle pratiche predatorie della oligarchia. Una missione che ha auto la sua fonte nel particolare momento storico, era il 1991, nonché nella legge 266 appena approvata; esplicitata non a caso nel testo dello statuto dell'Associazione, ribadita ogni anno nella “relazione di attività”. Una missione che nel momento in cui è stata lanciata, ha trovato larghe conferme nelle culture politiche dei militanti, per i quali in seguito, in condizioni mutate, ha rappresentato una sorta di caposaldo ideologico.

2) Era da tempo che i fatti passavano vicino alle parole della Costituzione del 48, senza vederle. Via via, nel corso degli ultimi decenni, la mutevole realtà dei rapporti sociali, politici ed economici ha sciolto il senso di quelle parole fino a ridurle a vuota retorica; la stessa retorica della “prima parte della Costituzione sottratta alle riforme” del più recente argomentare della Boschi e soci. Alla fine di questo processo, cioè nel presente tempo storico, la costituzione materiale della società si presenta come un rivoluziona-mento di quella che faceva da sottostante alla Costituzione del 48. I nuovi rapporti di potere, cristallizzati nella legislazione ed estesi ben oltre i territori nazionali, configurano come è stato detto, una “moderna” oligarchia, essendo la sovranità sottratta al popolo e la repubblica fondata sul lavoro una nostalgia di vecchi bolscevichi. I popoli sono sudditi di “lor signori”, vale a dire i soggetti economici e finanziari del mercato globale, che esercitano la sovranità in una forma che non ha più nulla a che fare con quella delle costituzioni liberali. Il governo è affidato ad una élite politica di tecnocrati ben pagati, in istituzioni prive di legittimazione democratica, il cui compito principale è quello di assicurare che il processo di valorizzazione del capitale non si interrompa. Le nuove tecnologie e i nuovi saperi, sussunti in quel processo, rendono quella sovranità inafferrabile, la de-territorializzano, la implementano persino in forme democratiche, di una democrazia estenuata che ha smarrito il suo antico protagonista. In forme diverse è tornato il vecchio comitato d'affari della borghesia, con una classe dominante che ha progredito nel suo potere con atti a vocazione costituente, manomettendo, se necessario, le Costituzioni antifasciste ancora formalmente in vigore. J.P. Morgan docet.

3) Dentro questo contesto storico e in relazione ad esso, si è chiuso un ciclo di mobilitazioni in difesa del diritto all'abitare. Poiché il “movimento” non ha avuto nulla di sovraordinato - circostanza che è stata la sua forza e la sua debolezza – è impossibile fornirne una analisi “complessiva” e neppure un bilancio “complessivo” autorevole. Il “movimento” si è radicato sui territori, acquistandovi forza e senso politico, pertanto è sui territori che un bilancio si può fare, anzi si deve fare, escludendo l'ipotesi che quell'esperienza sia stata effimera, non abbia lasciato tracce, sia irrimediabilmente perduta. Diversamente a che servirebbe un bilancio ? D'altra parte basta la lettura dei quotidiani, con uno sguardo europeo, per rendersi conto di un attivismo a volte estenuato a volte fortemente politico (vedi Spagna). Certamente tutto al limite di un cambiamento di paradigma sociale, qualche volta un annuncio, qualche volta una traccia, altre volte brutalmente represso (vedi le misure di polizia verso gli attivisti di Roma e della valle Susa). Adesso il “movimento” in Italia misura in vario modo, in tutti i territori, l'esito politicamente sterile delle passate mobilitazioni. Non è spento, qualche volta si riaccende per riportare in piazza le ormai scontate rivendicazioni, più recentemente prova a misurarsi con la nuova espressione del potere istituzionale. L'ascesa dei 5 stelle ha portato nelle amministrazioni brandelli di cultura critica e intellettuali (Berdini, Montanari) la cui attività è stata contigua ai movimenti. Per quella via potrebbero crearsi le condizioni di una rottura dei dispositivi di assoggettamento di cui si è detto. Certo non per decreto, ma attraverso la partecipazione che quella cultura critica può promuovere. E' una ipotesi, insieme ad altre, che qui viene presa in considerazione perché riguarda una materia di più stretta esperienza e conoscenza dell'associazione.

4) I percorsi di conoscenza/presa di coscienza, fatti da militanti e famiglie, per strutturare e dare senso ai contrasti degli sfratti e alle occupazioni, sono stati una propedeutica per un soggetto sociale candidato ad essere politicamente autonomo. Le occupazioni in particolare, al loro inizio, potevano considerarsi il risultato provvisorio di un soggetto sociale capace di autogoverno e contro-potere. Poi queste azioni collettive e pubbliche hanno tradito la loro promessa, meglio, i loro protagonisti sono stati indotti a non superare la soglia del “politicamente corretto”, del culturalmente compatibile. Dunque anche Asti un ciclo si è chiuso. Come è stato detto il cambio di fase si è avuto attorno al 2007, quando nello scenario sociale della città sono comparsi i cosiddetti “naufraghi dello sviluppo”, cioè persone/famiglie spogliate di ogni diritto, figure del lavoro precario, espulse dal mercato delle locazioni e affidate ad un welfare ormai avviato alla residualità. In questo nuovo scenario, mentre il soggetto sociale che incarnava la cultura dei diritti andava perdendo se stesso, la missione originaria del Coordinamento è stata messa, come già detto, forzatamente in discussione. L'idea di “concorrere”, con gli enti pubblici, a rimuovere le cause dell'emarginazione sociale, che aveva ispirato tra l'altro l'impianto della 266, è stata travolta, insieme al linguaggio che la proponeva. L'emarginazione sociale di cui potevano essere vittime, per responsabilità propria, i “naufraghi della vita”, ha lasciato il posto ad un esteso malessere sociale le cui cause strutturali venivano occultate e perpetuate in un dichiarato stato di eccezione o di emergenza. Così, i “naufraghi dello sviluppo” hanno iniziato ad essere una componente della “nuova” formazione sociale, gruppo sociale potenzialmente eversivo e perciò da tenere sotto controllo.

5) In questa seconda fase, il ciclo di mobilitazioni in difesa del diritto all'abitare ha conosciuto il suo momento politicamente più alto. Nelle azioni di contrasto degli sfratti, ma soprattutto nelle “occupazioni” di edifici pubblici e privati, altrimenti destinati all'abbandono o alle sorti imprevedibili del mercato immobiliare, c'era l'annuncio di un cambio di paradigma sociale. Semplificando pareva che si riaprisse la strada della “uguaglianza sostanziale”, quella promessa nella “Repubblica fondata sul lavoro” dall'articolo 3 della Costituzione. Contemporaneamente, nel contesto nazionale, si sono moltiplicate analoghe mobilitazioni e ha preso corpo un “movimento” con una potenzialità politica di cui la manifestazione di Roma dell'ottobre del 2012, “assediamo i ministeri”, è stata la prima e purtroppo unica espressione. Fin dallo svolgersi di quella iniziativa è risultato chiaro che i dispositivi di controllo di quel potere “assediato nei ministeri” avrebbero avuto la meglio su ogni possibile sviluppo eversivo del movimento. In quel passaggio, i militanti del “movimento” e quelli del Coordinamento con loro, hanno creduto di aver accumulato, nella loro esperienza, in primo luogo sui territori, embrioni di contro-potere, capaci di durare ed espandersi (nelle forme dei forum sociali prima e delle coalizioni sociali dopo). In altri termini i militanti del movimento, hanno creduto di poter produrre, dentro i conflitti e in una situazione di incipiente crisi sociale, il salto di coscienza necessario per passare dall'opposizione ai primi risultati concreti di una futura alternativa di società. Non più individualismo proprietario, competizione senza regole, un potere sempre più astratto, una smisurata disuguaglianza ma cooperazione sociale, solidarietà, uguaglianza, insomma un “noi” ritrovato. I militanti e le persone/famiglie coinvolte nella mobilitazione hanno creduto intensamente in questa prospettiva e vi hanno adeguato ogni loro azione, ordinandone valori, pedagogia e linguaggio. Si trattava di capovolgere l'ordine dominante delle cose, mettere le persone prima delle astrazioni della politica, i diritti prima dei vincoli del mercato, la cooperazione prima della competizione senza regole. Niente di inventato, era già accaduto altre volte nella storia. Niente di gratuito, la tutela dei diritti e la rimozione di ciò che ne limita l'esercizio è scritta, in forma di promessa in Costituzione (art.3). Aprire le “occupazioni” alla città, per dire che la città è di chi l'abita e non del partito del mattone. Fare delle occupazioni atti pubblici “a vocazione costituente”, ponendo l'accento sulla natura non solo mercantile della proprietà. Le occupazioni aperte alla città, per sottrarle alla tentazione di viverle come un atto privato, per sottrarle alla minaccia di viverle come un atto illegale, questa è stata la pratica sociale del Coordinamento per molti mesi e il terreno di un confronto con il potere pubblico e con l'opinione pubblica meno conforme della città.

6) Il confronto non è stato solo un colloquio tra sordi, come potrebbe sembrare, ma nelle mani dell'assessorato è diventato uno strumento delle politiche dell'emergenza e dell'austerità. Le sue modalità sono state quelle dell'elusione, del giudizio sospeso, degli annunci e dell'inconcludenza. Esattamente le modalità conformi alle politiche di cui si è detto. Solo le iniziative pubbliche rompevano queste modalità. Quando hanno avuto come obiettivo l'interruzione della riunione del Consiglio Comunale, hanno indotto i consiglieri a sottoscrivere ordini del giorno favorevoli al riconoscimento delle famiglie occupanti e sotto sfratto come un soggetto sociale. Ma è stata solo una suggestione del momento, non c'è stata mai verso le famiglie nessuna chiamata di responsabilità, nessun riconoscimento dei loro diritti di cittadinanza, nessun tentativo di superare la dimensione privata dei problemi. Un tale riconoscimento sarebbe stato incompatibile con le politiche dell'emergenza, con la necessità di oscurare sistematicamente le cause strutturali del problema delle abitazioni. Questo è stato il “dialogo”, non convenire su nulla per lasciare che la dimensione personale dei problemi soffocasse ogni tentativo di riportare in pubblico un grave problema sociale, evitando così che resuscitasse quel “noi” che si era affacciato nelle occupazioni e nel contrasto degli sfratti. Quegli embrioni di contro-potere sono stati così via via isolati e trattati sistematicamente come corpi estranei. Sindaci e tribunali, con tutti gli strumenti a loro disposizione, hanno eretto attorno a quelle esperienze un recinto di illegalità per troncarne ogni possibile libero sviluppo. Occupanti senza titolo si, cittadini mai. Lo sforzo dei militanti e delle famiglie di rompere questo recinto con iniziative pubbliche e contro-narrazioni non è riuscito nel suo intento. Embrioni di coscienza politica attorno a fragili esercizi di contro-potere non sono stati sufficienti per aprire varchi in quel recinto, per fissare nei comportamenti delle famiglie occupanti e sotto sfratto uno stabile distacco dalla cultura dominante. Il “noi” solido e strutturato, capace di esprimere una tensione durevole all'autogoverno è rimasto costantemente un annuncio. Da una parte i militanti che lo predicavano, sulla base di esperienze esaurite da tempo, non dovendosi curare troppo della loro condizione materiale. Dall'altra parte le famiglie occupanti la cui presente condizione materiale era di ostacolo ad una definitiva presa di coscienza. Questa disarmonia che fino a quel momento era rimasta occultata, si è poi manifestata provocando tra i militanti discussioni senza costrutto, fin troppo cariche di vecchie culture politiche, escludenti. Alla fine di questo periodo non breve, il “movimento” appare oggi come un soggetto sociale estenuato da una azione prolungata e politicamente sterile.

7) Si è detto che la presente condizione materiale era di ostacolo ad una definitiva presa di coscienza, ma ha fatto da ostacolo soprattutto perché coltivata dalle politiche filantropiche e di riduzione del danno dell'assessorato di cui lo stato di eccezione fa organicamente parte. Ecco dunque implementato un dispositivo di assoggettamento: dialogo inconcludente, politiche filantropiche e di riduzione del danno, stato di eccezione indefinito versus condizioni sociali già segnate da bisogni insoddisfatti, brandelli di coscienza conforme, l'assillo di una quotidianità minacciata dalla precarietà. E quando si dice politiche filantropiche significa relazioni di sudditanza e subalternità, conformità alle regole dominanti, le interiorizzazioni del potere che mutilano l'essere sociale e ne fanno il destinatario disciplinato di decisioni altrui. Questa reazione dei poteri costituiti è qualcosa di più di una sconfitta sul campo. E' una sorta di attacco dalle retrovie che si aggiunge all'attacco frontale condotto a colpi di legge 80 e di riforme della Costituzione e che spiega in parte la blanda reazione ad un provvedimento che in un colpo solo chiude l'edilizia residenziale pubblica, criminalizza la povertà (art.5) e finanzia con il social housing un mercato immobiliare altrimenti bloccato dai suoi stessi limiti forsennatamente mercantili (tutta la stagione del costruire per vendere anziché per abitare). Per non parlare della “schiforma” che se realizzata sarebbe l'ennesimo tradimento delle promesse della Costituzione del 48 oltre che un allineamento alle regole della oligarchia di cui si è detto. In questo contesto, tutta la legislazione sulla erp, fino alla lr 3/2010 e seguenti, scritta con il proposito di garantire il diritto alla casa ai ceti popolari, funziona come ulteriore ingranaggio del dispositivo di assoggettamento di cui si è detto, perché senza disponibilità vera di alloggi, sono di più le persone/famiglie che la legge esclude e recinta, in graduatorie inesauribili, di quelle che include nel bisogno abitativo soddisfatto.

8) Ad Asti come altrove le ipotesi di una alternativa sociale appaiono adesso tanto più remote quanto più stringente si è fatta l'analisi critica del momento e della situazione. E' come se le potenzialità politiche rivelatesi attorno alla manifestazione dell'ottobre del 2014, sorte in un reale conflitto sui territori, si fossero provvisoriamente inabissate nel magma dei generali processi di globalizzazione, e lì fossero in attesa di essere nuovamente colte. Chi scrive queste note pensa che anche i militanti del Coordinamento debbano assumere una posizione di attesa, coltivando l'inquietudine, riportando nella dimensione personale la passione per la politica, facendo un buon uso delle macerie dell'organizzazione. Non sono in pochi quelli che tentano di tenere in vita il fantasma del Coordinamento, persino nell'assessorato ai Servizi Sociali. In fin dei conti i “fantasmi” come le “talpe” avvertono che nell'immanenza le possibilità del reale sono infinite.

Asti 09/11/16

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